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Tuesday, June 12, 2012

Epoche. Notti di Luna e cieli rosa



Io e i miei amici conoscevamo i nomi delle stelle.

E il cielo per noi era contemporaneamente la nuova frontiera e il varco da cui potevano giungere entità straordinarie che avrebbero cambiato il mondo.

Sicuramente essere stati bambini durante il decennio degli anni sessanta, quello della «corsa allo spazio», quello della gara entusiasmante tra astronauti (Usa) e cosmonauti (Urss) [1], tra cagnette o scimmie tailandesi sacrificate e “primi uomini”, ha avuto il suo rilievo. Quando si è bambini infatti, ogni sogno è permesso. Ogni ribaltamento (rivoluzione?) è possibile. Così la realtà può colorarsi di fantasia e l’irreale, il mistero o l’inspiegabile, possono diventare tremendamente concreti e tangibili.

La voce gracchiante dallo spazio di uomini «vestiti d’argento» [2] fece da sottofondo ai nostri giochi sul pavimento verde di gres della cucina; le riprese sfocate in bianco e nero di crateri, di bandiere immote e di strani uomini imbottiti e saltellanti al rallentatore, fecero da sfondo alla nostra vivace immaginazione.

Chi di noi non restò rapito dall’interminabile diretta tv L’uomo sulla luna con Tito Stagno la sera del 20 luglio 1969, quando il comandante dell’Apollo 11 Neil Armstrong fece quel piccolo grande passo nel Mare della Tranquillità e augurò buona fortuna a Mr. Gorsky [3]?

«Signori sono le 22.17 in Italia, sono le 15.17 a Huston, sono le 14.17 a New York. Per la prima volta un veicolo pilotato dall’uomo ha toccato un altro corpo celeste. Questo è frutto dell’intelligenza, del lavoro, della preparazione scientifica. È frutto della fede dell’uomo».

Un senso di orgogliosa autostima, quella sera e quei giorni, colse un po’ tutti. Non va nemmeno dimenticato che solo due anni prima il chirurgo sudafricano Christian Barnard (1922-2001) aveva effettuato presso l’ospedale Groote Schuur di Città del Capo, il primo trapianto di cuore. Anche se i primi pazienti erano sopravvissuti solo poche settimane o mesi, già l’intervento effettuato proprio nel 1969, il 17 aprile, sulla quarantenne di colore Dorothy Fisher, le consentì di vivere per ben 12 anni e mezzo [4]. Anche la medicina dunque, come le esplorazioni spaziali, sembrava avviata inesorabilmente a raggiungere mete radiose.

E così allora, in quei giorni, poteva capitare di vedere lo zio più caro, quello che da bambino pensava che il mondo finisse oltre le colline che circondavano il paese, sospirare con occhi luccicanti e sognanti; fissare una languida luna in mezzo al cielo e declamare: «pensa che lassù, adesso, in questo momento, ci sono dei cristiani» [5]. In quei giorni dunque, e non solo nelle persone semplici, ci fu la percezione oggettiva, nonostante tutto, della grandezza dell’uomo, del suo ingegno e di quello che poteva raggiungere quando gli sforzi erano indirizzati verso nobili obiettivi.

«Siamo all’anno primo di una storia nuova. Fra pochi secoli gli uomini avranno costituito società permanenti su altri pianeti; e lassù saranno diversi, non condizionati da millenni di passioni e di errori. Solo nel cosmo, lontano dal grembo materno della Terra, l’Utopia può diventare realtà. Quello che importa adesso è che l’esplorazione spaziale diventi stabile e infinita come il suo oggetto, e che questo sia il prologo di una irradiazione senza termine che moltiplichi i suoi traguardi […] L’avventura spaziale non ci lascerà più» (Guido Piovene, Quando migreremo negli spazi, La Stampa, 22 luglio 1969).

Quelle imprese furono dunque una vera e propria iniezione di ottimismo per l’umanità. Qualcosa che purtroppo ci manca ormai da troppo tempo.

E così ogni aspetto della vita quotidiana risentì di quell’euforia. L’influenza che nell’autunno-inverno 1969-1970 costrinse a letto milioni di italiani non poté che chiamarsi “spaziale”, mentre Orietta Berti incise la canzone “Un fiore dalla Luna” che fu sigla di chiusura della fortunatissima e mitica trasmissione condotta da Febo Conti Chissà chi lo sa? [6]: «Mi porterai un fiore dalla Luna, lo troverai sui monti della Luna e nel tuo viaggio senza notte e senza giorno ti accenderà la lunga strada del ritorno».

Non mancò, ovviamente, anche qualche rara critica proveniente dagli ambienti più ideologizzati e frustrati per il successo statunitense [7]: «La “giostra lunare” vista dall’ombelico del mondo sottosviluppato, riempie di rabbia e accresce i crampi di fame del nuovo mondo, che racchiude in sé, lo si voglia o no, il futuro dell’umanità. Mai confronto è stato più drammatico di quello tra luna-India, occidente-terzo mondo provocato dagli ostinati esaltatori dell’America che non hanno compreso come il mito della potenza americana, almeno da questa parte del mondo, dove il Vietnam ha i propri confini, sta per finire sotto le zampe dell’elefante, simbolo in Asia della forza e della tenacia» (M.A. Macciocchi, La contestazione dei delegati del «terzo mondo», l’Unità, 25 novembre 1969).

Quanto fosse forte in me e nei miei amici la convinzione che nei decenni a venire saremmo stati testimoni di grandi imprese, magari alla ricerca di altre forme di vita nei pianeti vicini, lo dimostra la passione che ci fece seguire con trepidazione le esplorazioni che vennero messe in atto dopo le missioni lunari. Pensavamo seriamente che non ci sarebbero stati limiti e che l’evoluzione naturale della tecnologia non avrebbe fatto altro che accelerare i tempi, tanto che non ci parevano inverosimili nemmeno le parole di una canzone che gettonavamo con estrema frequenza nel juke-box del bar di fronte al Liceo: «È partito il 18 Settembre ed a Huston c’è un sacco di gente, primo uomo che arriva su Giove un boato di applausi: si muove» [8].

La corsa alla Luna, che aveva caratterizzato tutti gli anni ’60, terminò il 19 dicembre 1972, quando l’Apollo 17 ammarò senza difficoltà nell’Oceano Pacifico. Con quella missione erano sei gli equipaggi che avevano portato a termine il viaggio spaziale con successo e quindi dodici gli uomini che avevano calpestato il suolo lunare. Unica eccezione l’Apollo 13 che per via di un guasto (l’esplosione di un serbatoio di ossigeno) fu costretta a rinunciare all’allunaggio e ad approntare un drammatico rientro a Terra. Il lancio dell’Apollo 13 era avvenuto l’11 aprile 1970 da Cape Canaveral. Dal 13 aprile (quando cioè si presentò il problema) al 17 aprile (giorno del felice epilogo), il mondo intero restò col fiato sospeso. Lo spazio aveva già reclamato negli anni diversi sacrifici umani [9] ma la caparbietà, il coraggio e il sangue freddo di James Lovell, John Swigert e Fred Haise furono per tutti una ulteriore prova di quanto i limiti umani potessero essere superabili.

Le parole dei Dik Dik questa volta per fortuna non s’erano avverate… «D’improvviso si vede una luce, dallo spazio arriva una voce, ma si sente lontana lontana, sembra proprio Mc Kenzie che chiama: “Help me, help me, help me, yeah” poi silenzio, non si sente niente più» [10].




Quello che più ci affascinava, dunque, in attesa degli alieni, erano le missioni con sonde automatiche senza equipaggio, verso i pianeti che potevano ospitare qualche forma di vita. Quindi Venere, ma soprattutto Marte. Infatti già la statunitense Mariner 2, che il 14 dicembre 1962 aveva raggiunto con successo Lucifero, cioè Vespero, ovvero la “stella” del mattino… Venere, misurando una temperatura superficiale di oltre 400° C, aveva di fatto escluso qualsiasi ipotesi di vita sul quel pianeta. Le aspettative su Marte invece erano molto più fondate.

È così che con grandi speranze, curiosità ed eccitazione, seguimmo l’avventura del Viking 1 e 2. Lanciate rispettivamente il 20 agosto e il 9 settembre 1975, le due sonde raggiusero il pianeta rosso dopo dieci mesi di viaggio interplanetario. Il Viking 1 restò un mese nell’orbita di Marte per individuare un luogo adatto e farvi atterrare un lander, modulo che raggiunse la “pianura dorata” (Chryse Planitia) alle 11.51 ora di Greenwich del 20 luglio 1976. Il lander del Viking 2 invece scese sulla superficie marziana il 3 settembre 1976 in Utopia Planitia.

«Le prime immagini ci mostrano un suolo arido, pieno di crepe e di anfratti, ricco di grandi crateri e di macigni, e di più piccoli ciottoli, straordinariamente simile ai deserti e sterili campi della Luna. […] Sarà forse doloroso per i poeti, per i sognatori, per gli astrologi, dover riconoscere che anche su Marte (vogliamo essere pessimisti, quasi per scaramanzia) non esiste la vita [11]» (Umberto Oddone, Un segreto tra le rocce?, La Stampa, 21 luglio 1976).

In realtà non fu doloroso. Non più di tanto. I poeti (e a 16-17 anni tutti si è poeti), non poterono non restare incantati da quelle distese limpide di sassi e soprattutto da quei cieli rosa, luminosi e dolci. La bellezza di quelle immagini sopperì ampiamente la delusione di non scoprire qualche visibile forma di vita. Ricordo una vignetta che venne pubblicata non so più su quale giornale. Ritraeva un braccio meccanico del lander raccogliere con la sua estremità a pinza un sasso di dimensioni significative. Il sassolino accanto, di dimensioni più ridotte, rimasto solo alzava al cielo rosa un grido disperato: “Mammaaaaaa!”…

Come in ogni bella storia che si rispetti, anche quella missione rigorosamente scientifica, tecnologicamente ineccepibile, fu in grado di introdurre un elemento fantastico, un soffio di mistero che affascinò tanti sognatori per anni e anni, ispirando persino racconti e film di fantascienza. Una foto, scattata il 25 luglio dall’orbiter del Viking 1 nella regione di Cydonia, ritraesse sulla superfice marziana un volto quasi perfetto. Sembrava che affiorasse solo il viso, con tanto di occhi, naso, narici e bocca, di un guerriero marziano sepolto (volendo infatti si poteva percepire anche una sorta di copricapo). Troppo prosaico ridurre questa foto straordinaria ad un casuale ma stupefacente gioco di luci ed ombre, col sole al tramonto che si diverte a disegnare antropomorfismi con le pareti e le curve di un altopiano.

Ispirato da quell’immagine riprodussi per qualche settimana su dei fogli da disegno, distese spettrali da cui affioravano elmi antichi e cimieri. Il titolo di quegli schizzi poteva essere uno soltanto: “De bello celesti”.

Io e i miei amici conoscevamo i nomi delle stelle.

Li conoscevamo perché alzavamo sempre gli occhi al cielo. Anche di giorno, per ammirarne i colori (azzurro ma non solo). E le nuvole mosse. E il volo degli uccelli. Oggi, a pensarci bene, non lo facciamo quasi più, io per primo. Guardiamo sempre diritto davanti a noi, come se volessimo arrivare chissà dove e talvolta addirittura abbassiamo talmente lo sguardo da fissare solo la terra intorno ai nostri piedi e la polvere che sedimenta sulle nostre scarpe.

Gabriele Paradisi

Fonte: http://bonvivre.liberoreporter.eu

Commento di Oliviero Mannucci: Bello articolo questo di Gabriele Paradisi, che mi ha fatto rivivere i tempi in cui ero molto giovane.

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