In attesa della catastrofe finale è meglio non far sapere alla
popolazione italiana la situazione reale. E’ tutt’altro che teorico il
rischio di emergenza nucleare in una dozzina di porti del belpaese –
Augusta, Brindisi, Cagliari, Gaeta, Castellammare di Stabia La Spezia,
Livorno, Messina, Napoli, Taranto, Trieste, Venezia, Ancona – dove
attraccano o transitano navi e sommergibili a propulsione ed armamento
atomico
Di Chernobyl ne abbiamo almeno sei in navigazione nei mari
italiani, in transito e sosta in 12 città dello Stivale. Immaginate una
serie di centrali nucleari di vecchia generazione (stile Unione
Sovietica) che senza controllo, vanno a spasso per il Mediterraneo e
che, di tanto in tanto, approdano nei porti della Penisola; poi
immaginate che queste centrali nucleari siano in movimento e continuo
inseguimento, cariche di missili a testata atomica. Non è fantascienza,
accade realmente. Addirittura, secondo Greenpeace «Tra gli 8 e i 22
reattori a bordo di sottomarini e portaerei delle flotte militari di
USA, Francia e Gran Bretagna percorrono ogni giorno il Mediterraneo alla
ricerca di nemici ormai immaginari, visitando periodicamente i porti
italiani. Il rischio di incidenti al reattore in mare è elevatissimo».
Transitano nei mari d’Italia, attraversando i corridoi marittimi più
trafficati come lo stretto di Messina, incrociando petroliere, navi con
carichi pericolosi e perfino navi da crociera. Per le loro soste
scelgono le popolatissime baie ai piedi di due vulcani, l’Etna e il
Vesuvio, accanto a depositi di carburante e munizioni, raffinerie e
industrie chimiche. Si tratta dei sottomarini a propulsione nucleare
della marina militare USA, impianti antiquati. Di sicuro, perché
avvistata: c’è anche una portaerei francese, la Charles De Gaulle (anno
di immatricolazione: 1989). A cui si aggiungono un’unità britannica, una
russa ed una israeliana. Tutte a propulsione nucleare. Sono reattori di
vecchia generazione, pre-Chernobyl per intenderci, tutti privi di
sistemi di protezione e sicurezza e per di più impegnate in operazioni
di guerra su cui vige il massimo segreto militare. Queste unità sono
perennemente dedite agli inseguimenti e alla sperimentazione di
sofisticate armi a comando remoto. E’ quanto è avvenuto dal 5 febbraio
2011 nelle acque siciliane del Mar Ionio con l’esercitazione aeronavale
denominata “Proud Manta 201” a cui hanno partecipato dieci nazioni
dell’Alleanza atlantica. Ogni 6 mesi la flotta atlantica statunitense
prevede lo schieramento di un gruppo di battaglia nel Mediterraneo,
comprensivo di una portaerei, due sottomarini e altre navi da guerra.
Pericoli concreti- «L’emissione di radioattività nei
nostri mari, nel Mediterraneo, in particolare nello Jonio è costante
anche se viene ben nascosta all’opinione pubblica – spiega il professor
Massimo Zucchetti, docente di Impianti nucleari al Politecnico di Torino
– Un incendio o il danneggiamento di queste unità navali possono
portare a conseguenze disastrose paragonabili agli effetti di Chernobyl.
Ci sono numerosi precedenti con i sottomarini russi nel Mar Baltico e
nel Mar del Giappone (l’ultimo nel 2008 causato da un’avaria al sistema
antincendio) ma anche da noi, in Sardegna, dove nel 2003 si sfiorò il
disastro nucleare quando il sottomarino americano Hartford, a
propulsione nucleare, s’incagliò nella Secca dei Monaci a poche miglia
dalla base di La Maddalena». Il professor Zucchetti non ha dubbi: «Ci
raccontano che queste macchine sono molto sofisticate, mentre se si
guarda nel dettaglio si vede che la statistica degli incidenti negli
ultimi 50 anni è agghiacciante, con dispersione di materiale radioattivo
e irraggiamento di personale. E non parlo solo dei sottomarini
americani o russi, ma anche inglesi e francesi». Lo scienziato ricorda
inoltre come «le normative prevedano intorno ai reattori nucleari
un’area in cui non sia presente popolazione civile (“zona di
esclusione”), mentre è richiesta, in una fascia esteriore più ampia, una
scarsa densità di popolazione per ridurre le dosi collettive in caso di
rilasci radioattivi, sia di routine che incidentali. Normalmente, la
fascia di rispetto ha un raggio di mille metri e vi sono requisiti di
scarsa densità di popolazione per un raggio di non meno di 10 chilometri
dall’impianto. Cosa del tutto diversa nel caso dei reattori nucleari a
bordo di unità navali militari, dato che molti dei porti si trovano in
aree metropolitane densamente popolate e i punti di attracco e di fonda
delle imbarcazioni sono, in alcuni casi, posti a distanze minime
dall’abitato». L’atomo bellico incrocia nelle acque tricolori e fa
capolino nelle nostre città. Basta scorrere gli avvisi delle Capitanerie
di Porto di mezza Italia in riva al mare. I piani di sicurezza in una
dozzina di realtà portuali del Belpaese sono ignoti alla popolazione. Il
sommergibile americano Scranton è approdato al porto di Augusta il 6
marzo 2011. Nell’almanacco navale edito dallo Stato maggiore della
militare italiana è documentato che l’SSN 756 – uno dei 49 esemplari
classe “Los Angeles” (fino al 2008 di stanza alla Maddalena), ancora in
circolazione nonostante la vetustà - è stato varato nel «1986»: proprio
l’anno del disastro di Chernobyl. Augusta, in provincia di Siracusa, è
il porto principale per operazioni di rifornimento della VI Flotta USA.
Il 4 aprile ad Augusta è giunto un altro sottomarino nucleare. Ecco
cosa impone l’ ordinanza (numero 17/2001) della Capitaneria di Porto
(rimossa dal sito internet d’ordinanza): «Visto il vigente piano di
emergenza e norme per la sosta di unità militari a propulsione non
convenzionale nel Porto di Augusta emanato dal Comando Militare
Marittimo Autonomo in Sicilia; il comandante del porto ordina: Articolo
1. Il giorno 04/04/2011 è vietato a tutte le unità navali non
specificatamente autorizzate di avvicinarsi, transitare o sostare ad una
distanza inferiore a 1000 metri dalla unità a propulsione non
convenzionale posta alla fonda nel punto di latitudine 37° 10’ 18”N e
longitudine 015° 14’ 36”E, nelle acque antistanti il porto di Augusta.
Articolo 2. In caso di avverse condimeteo, la suddetta unità sosterà
all’interno della rada del porto di Augusta nel punto di fonda Y3 (
latitudine 37° 12’.270N – longitudine 015° 12’.220E). In tal caso,
durante le manovre di ingresso/uscita dell’unità militare a propulsione
non convenzionale dal porto di Augusta, il traffico mercantile sarà
sospeso, ad eccezione di quello adibito all’assistenza dell’ unità in
questione. Durante la predetta sosta, inoltre, è fatto divieto assoluto
di avvicinarsi/transitare e sostare con qualsiasi mezzo navale non
specificatamente autorizzato, ad una distanza inferiore a 1000 metri
dalla unità a propulsione non convenzionale. Articolo 3. I
contravventori alla presente ordinanza, salvo che il fatto non
costituisca reato e salvo le maggiori responsabilità derivanti
dall’illecito comportamento, saranno puniti ai sensi degli articoli dal
53 al 67 del Decreto Legge n° 171/2005, se alla condotta di unità da
diporto, mentre negli altri casi ai sensi degli articoli 1174 e/o 1231
del Codice della Navigazione. Articolo 4. E’ fatto obbligo a chiunque
spetti di far osservare la presente Ordinanza. Firmato il comandate CV
Francesco Frisone». Più recentemente, il capo del circondario marittimo e
comandante del porto di Catania, contrammiraglio Domenico De Michele –
con ordinanza numero 96/2011 dell’8 settembre 2011- ha reso noto «la
zona di mare delimitata dalle seguenti coordinate geografiche (37° 15’
N, 37° 25’ N – 015° 25’ E, 015° 55’E) sarà interessata da esercitazioni
militari con la presenza di sommergibile immerso: dalle ore 24:00 del
15/09/2011 alle ore 01:00 di giorno 17/09/2011. ORDINA. Articolo 1. La
zona di mare territoriale di giurisdizione di questo Circondario
marittimo, ricadente all’interno dell’area delimitata dalla suddette
cordonata geografiche, nei periodi sopra citati, è interdetta alla
navigazione marittima, all’ancoraggio, alla pesca e mestieri affini. Le
unità in transito devono mantenersi ad almeno 0,5 miglia di distanza
dall’area interessata dalle esercitazioni, nonché prestare la massima
attenzione alle segnalazioni eventualmente trasmesse dalle unità
militari presenti». Anche realtà minori non risultano trascurate.
Sicurezza zero – Le unità possono misurare anche 170
metri e pesare 18 mila tonnellate. Centrali nucleari galleggianti che a
differenza di quelle omologhe terrestri, non hanno le pesanti
schermature di sicurezza. L’Italia pur avendo respinto con ben due
referendum il nucleare è comunque sottoposto ai rischi di incidenti a
causa delle servitù militari. Gli Stati uniti d’America, invece, dal
2001, con le nuove leggi antiterrorismo hanno deciso che i sommergibili
nucleari devono mantenersi ben lontani dalle coste. Da noi è previsto,
consentito ed attuato in base ad accordi segreti mai ratificati dal
Parlamento. Che succede in caso di esplosione atomica? «Per la
definizione delle misure operative è stato ipotizzato il massimo
incidente credibile consistente nella rottura del circuito primario del
reattore con perdita di refrigerante, conseguente fusione del “nocciolo”
e fuoriuscita dei prodotti di fissione. La nube radioattiva che
fuoriesce dall’unità sinistrata, comporta dose per irraggiamento interno
per inalazione (…) il personale solo contaminato viene fatto passare
nel locale 2 nel quale viene controllato e quindi fatto passare nello
spogliatoio. Gli abiti contaminati sono depositati negli appositi
contenitori (…) se la contaminazione ha avuto esito positivo (…) il
decontaminato si riveste ed esce dalla Stazione». Non è la sceneggiatura
di Silkwood o di Sindrome cinese, e nemmeno lo scenario di Chernobyl, o
Three Miles Islands o Fukushima, almeno per ora, ma le indicazioni che
emergono dal Piano di emergenza per le navi militari a propulsione
nucleare in sosta nella base della Spezia. Il documento della Marina
Militare Italiana, pubblicato però dai Verdi in barba al segreto, che
reca la dicitura “riservato” e la data del 22 ottobre del 1999, rinnova
un’edizione precedente elaborata nel ‘74 e disegna un quadro inquietante
agli occhi di chi è convinto che la svolta antinucleare italiana,
sancita da due referendum anti-atomo abbia eliminato questo genere di
rischi. Questo documento della Marina Militare parla chiaro: il porto di
La Spezia ha anche il compito di ospitare navi militari a propulsione
nucleare, come i «sommergibili dotati di reattore nucleare di potenza
unitaria sino a 60 MW» o «unità di superficie dotate di reattore
nucleare di potenza unitaria sino a 130 MW», delle quali si prospetta
nei dettagli l’ormeggio, la sosta e il loro possibile danneggiamento,
con eventuale fuoriuscita di «prodotti di fissione». Viene da chiedersi
quali garanzie abbiano i liguri, i bagnanti occasionali, i turisti
domenicali e, dulcis in fundo, i residenti. Una domanda da girare alla
Protezione Civile e all’Ispra (l’agenzia nazionale per la protezione
ambientale). Con un conforto e una sorpresa. Il conforto è che sono al
corrente della situazione. La sorpresa è che la lista dei porti dove è
previsto l’ormeggio di unità a propulsione e spesso ad armamento
nucleare si allunga ad almeno altri 11 siti. Attenzione al punto 8. Il
protocollo della Marina prevede diversi tipi di incidente tra cui
quello, il più grave, che comporta «un pericolo immediato per la
popolazione locale e nel quale siano coinvolte persone in tale numero
che le operazioni di bonifica o di salvataggio risultino seriamente
ostacolate o in cui dette persone corrano pericolo di contaminazione».
Ma la preoccupazione degli uomini in divisa, scrupolosa per il personale
interno, fa acqua proprio quando deve entrare nel merito di
salvaguardia della popolazione civile. Solo dopo aver allertato la
struttura militare nazionale e locale, dal capo di stato maggiore (Csm)
alla locale Compagnia di carabinieri, viene “informato” il prefetto e il
comando dei Vigili del Fuoco. E solo in seguito ad autorizzazione del
Csm, si provvede ad “allertare” la Prefettura, confermando la notizia di
“incidente nucleare”. Insomma, una bella trafila, augurandosi che non
capiti il peggio come in Giappone. D’altro canto, il documento specifica
in prima pagina di essere solo «a integrazione delle competenze delle
Autorità civili». Così, una volta venuta a conoscenza dell’incidente, la
solerte autorità militare fa partire il “suo” piano di emergenza. Viene
dichiarato chiuso il porto, dirottate le altre unità militari diretta a
La Spezia e sgomberato il personale civile e militare da tutti i
comandi all’interno della base. E solo, allora, non certo prima, al
punto 8 del protocollo operativo che un ufficiale viene inviato al
Centro di coordinamento costituito presso la Prefettura. E solo al punto
10 si fa menzione del «concorso per la costituzione del Centro di
Raccolta per la decontaminazione della popolazione organizzato dalla Usl
n. 5 (…)», concorso che consiste nel «mantenere a disposizione del
Prefetto il personale medico, le strutture sanitarie, i tecnici»
militari a supporto dell’azione di competenza della Usl. Al punto 12, il
comando militare «mantiene i collegamenti con le unità civili alle
quali fornisce nei limiti delle proprie possibilità il proprio
concorso», che si risolve nella fornitura di una ventina di automezzi
per la distribuzione di viveri secchi e il trasporto di alimenti e
vestiario approvvigionati dalla Prefettura. Questi ospiti all’uranio e
al plutonio non sono roba italiana, sia chiaro. Si tratta solo di unità
straniere, perché l’Italia non ha tali mezzi (Inghilterra, Francia, USA,
ed Israele in base all’ultimo Memorandum) ospitate in base agli accordi
bilaterali con gli Stati uniti o in ambito NATO. Nel documento di
“sicurezza” vengono citate le modalità «per la sosta di unità militari
straniere a propulsione nucleare nella basi della marina militare». E’
scontato che la Marina ha l’obbligo di avvisare quando le unità entrano
nel porto e quando lo lasciano e, ancor più, è tenuta a comunicare gli
incidenti che possano avere ripercussioni sui civili. Ma poiché la
storia militare non è delle più trasparenti e poiché la coltre di
segretezza in materia diviene impenetrabile, è lecito chiedersi quale
sia il sistema civile di monitoraggio per verificare eventuali incidenti
a unità a propulsione nucleare o che trasportino materiale fissile. Qui
incombe il segreto militare. I rilevamenti vengono effettuati dal Cisam
attraverso un sistema di campionatura annuale che poi richiede analisi
di laboratorio. Non è un sistema in tempo reale e non è dunque in grado
di svelare fughe radioattive. Ma se accade qualcosa nel Tirreno o
nell’Adriatico e nello Jonio: acqua in bocca. Nel Piano di emergenza
militare, la parte sulle «norme standard per la sosta di unità militari
straniere a propulsione nucleare nelle basi della marina militare»
spiega testualmente che «nessun rifiuto radioattivo inquinante né
rifiuto di altro genere dovranno essere scaricati in mare, sia in porto
sia nelle acque territoriali italiane». Raccomandazioni sulle quali
l’autorità civile non ha nessuna possibilità di verifica. Per i militari
gli incidenti possono essere di tre tipi: alfa, se comporti la
contaminazione di un’area non abitata; bravo, se minacci un’area
abitata; charlie, se comporti un pericolo immediato per la popolazione
locale e «nel quale siano coinvolte persone in tale numero che le
operazioni di bonifica o di salvataggio risultino seriamente ostacolate,
o in cui dette persone corrano pericolo di contaminazione». Esiste poi
un meccanismo cifrato per segnalare un eventuale incidente. Per cui un
incendio con possibilità di danni al reattore nucleare sarà indicato con
“calore”, un sabotaggio con “congegno”, la rottura del circuito
primario con conseguente fusione del nocciolo con “caduto”, un incidente
di un altro tipo con “comune”. E ancora, con “falce” saranno indicati i
morti, con “fievole” i feriti, con “fulmine” il personale contaminato,
con “fuga” il personale da sgomberare e con “fungo” la dispersione di
sostanze radioattive. Il piano di emergenza di La Spezia fa accapponare
la pelle. A fare le ispezioni sono gli stessi militari. Anche le
procedure sono improbabili. Il piano dice che nell’arco di un’ora
dall’incidente un rimorchiatore deve portare il sommergibile al largo.
Solo in questo caso la contaminazione non sarà ingente ma comunque
rilevante, al punto da far avviare le procedure di evacuazione della
città e di proibire alcuni alimenti. Ma se confrontiamo queste norme con
la strage del traghetto Moby Prince (10 aprile 1991: 140 morti), dove
la nave ha bruciato per 24 ore prima che si capisse cosa fare, o di
Chernobyl, dove l’emergenza è iniziata dopo 36 ore, com’è possibile che
nella frazione di un’ora le autorità comprendano militari cosa fare.
«L’autorità civile deve dotarsi di proprie reti di monitoraggio –
insiste l’esperto Zucchetti – specie per rilevare il rilascio di
materiale radioattivo nelle acque e poter così dare l’allarme, attivando
le procedure di emergenza; perché non possiamo accettare il segreto
militare. La presenza di navi militari a propulsione nucleare non è
ammissibile in porti situati in zone con presenza di popolazione nel
raggio di qualche chilometro. E nessuno degli attuali «porti nucleari»
italiani ha questi requisiti». Sul rischio di contaminazione radioattiva
causato da unità navali a propulsione nucleare si era già pronunciata,
ma solo in un’unica occasione, la massima autorità militare della Marina
italiana. Infatti al quotidiano Il Corriere del Giorno (31 ottobre
2000) l’ammiraglio Umberto Guarnieri, all’epoca capo di stato maggiore,
aveva dichiarato: «I piani di emergenza esistono perché non si poteva
non farli, ma i rischi sono bassissimi ed in caso di incidente
riguarderebbero solo il personale di bordo. L’unico provvedimento utile
in una simile ipotesi sarebbe quello di trasportare al largo l’unità
interessata». A parere di Alessandro Marescotti, presidente di
Peacelink, «La dichiarazione dell’ammiraglio Guarnieri non risponde a
verità ed è smentita dallo stesso piano di emergenza nucleare che la
Marina militare ha elaborato per Taranto». Nel piano di emergenza
nucleare si legge, infatti: «Interventi di secondo livello: accertata la
presenza di livelli significativi di radioattività al di fuori della
zona di esclusione prevista attorno al punto di ormeggio, si attueranno i
seguenti interventi: 1) eventuale allontanamento dalla zona
potenzialmente pericolosa della popolazione residente e di passaggio; 2)
istituzione di posti di controllo sanitario, di decontaminazione e di
assistenza sanitaria; 3) misurazione della contaminazione; 4)
regolazione del traffico; 5) richiesta del Task Group. Interventi di
terzo livello: qualora, in relazione all’estensione della zona
contaminata, si renda impossibile il rientro nei luoghi di provenienza
della popolazione sfollata entro 24 ore, saranno attuati i seguenti
interventi: 1) adozione dei provvedimenti di profilassi alimentare; 2)
sistemazione degli sfollati presso alberghi ed edifici scolastici; 3)
distribuzione di viveri, acqua e vestiario; 4) raccolta dei materiali
contaminati». La popolazione contaminata – si legge chiaramente –
verrebbe quindi sfollata. Il piano di emergenza nucleare prende in
considerazione la possibile contaminazione radioattiva dei bambini e vi
si legge testualmente. «Le dosi alla tiroide dei bambini superano, entro
2 ore dall’inizio del rilascio, il relativo livello di riferimento per
distanze (variabili con la potenza) comprese tra 300 metri ed 1
chilometro; per tempi lunghi, detto livello risulta superato fino a
distanze (variabili con la potenza) comprese tra 5 km e 20 km». Dalle
striminzite pagine dei piani di emergenza – obsoleti, inadeguati e
sconosciuti alla popolazione – che sono state diffuse, a La Spezia
occasionalmente e a Taranto su richiesta di Peacelink, si è venuti a
conoscenza di scenari apocalittici, ma sui quali le autorità competenti
non sono informate sottostimando i rischi. Indipendentemente dai
possibili incidenti, il sistema di propulsione dei sottomarini rilascia
nel mare dei radionuclidi che aumentano col tempo e sono rilevabili sia
nell’acqua che nei sedimenti marini. Il valore della loro presenza è
spesso ritenuto “al di sotto della soglia”. E’ però ben difficile
stabilire un limite al di sotto della quale ci si può ritenere
tranquilli. In merito alla misurazione dell’inquinamento, va segnalata
una grave carenza metodologica. L’approccio alla valutazione del rischio
ambientale resta fortemente riduzionista, basandosi solo sulla presenza
dei radionuclidi nell’acqua o nei sedimenti. Ma dunque cos’accadrebbe
in caso di fusione del nocciolo? Che scenario potrebbe verificarsi? Nei
due piani di emergenza nucleare noti si parla del Cnen, un ente per
l’energia nucleare che non esiste più da una ventina di anni. E si
valuta il Massimo Incidente Credibile.
Il parere del fisico Antonino Drago – «Questa
eventualità provocherebbe un possibile cataclisma tipo maremoto, dovuto
allo sfondamento dello scafo da parte del nocciolo che fonde o evapora
a milioni di gradi fondendo anche tutto ciò che incontra; si leverebbe
una nube radioattiva che spazzerebbe larghe zone seminando morte,
provocando un inquinamento del mare in proporzioni inimmaginabili,
essendo il Mediterraneo praticamente chiuso; e quindi avremmo un
inquinamento dei pesci e in definitiva, attraverso le piogge, dell’acqua
potabile e dei prodotti agricoli. Si parla di “massimo incidente
credibile”, così come faceva il Cnen allora; invece oggi nella
letteratura internazionale si parla di “massimo incidente ipotizzabile”.
E’ evidente che il “credibile” è in relazione a quello che credevano
possibile i membri del Cnen, che ancora non avevano conosciuto e
sperimentato l’incidente per fusione del nocciolo avvenuto a Chernobyl.
Tutto dipende quindi dall’incidente che si ipotizza. Ma gli esperti del
Cnen di allora non avevano considerato che se avviene la fusione del
nocciolo, il vessel fonde, la massa delle barre e dei materiali fusi
sprofonda facendo un buco in qualsiasi cosa, compreso il terreno
roccioso; figurarsi il fondo di una nave. Inoltre, non si tiene conto
del panico che nascerebbe tra la gente, né della probabilissima
incapacità della nave ad allontanarsi, perché diventata vascello di
fuoco e sprofondata nelle acque. Si tratta di una cosa all’italiana.
Diffonderlo dopo che è accaduto l’incidente di Chernobyl rivela tutta
l’inadeguatezza di quelli che hanno scritto questo piano».
I sottomarini nucleari che approdano in Italia rilasciano nel mare
inquinanti radioattivi. Le sostanze ionizzanti vengono bio-concentrate
dalla fauna e dalla flora marina ed entrano nel ciclo alimentare umano.
Nelle alghe della Maddalena è stata trovata una rilevante presenza di
emettitori alfa. Ordinario di Fisica alla sapienza di Roma, Gianni
Mattioli, un padre del primo referendum antinucleare, con un passato di
Ministro della Repubblica, ma soprattutto uomo di scienza, non fa
sconti. Poche dosi bastano: l’atomo uccide. Non esistono limiti di
natura biologica, se non Mac zero. Infatti: «Radionuclidi vengono
rilasciati nell’atmosfera e nell’acqua marina e danno inizio così a
catene alimentari. Dosi piccole e piccolissime di radioattività sono poi
sufficienti ad innescare processi di mutagenesi, che sono punto di
partenza, ad esempio, del cancro e della leucemia. Si tratta di fenomeni
ben noti da decenni ai biologi, tanto che nella comunità scientifica
non si discute se vi sia o no rischio, su ciò vi è la certezza, ma sulla
quantità di individui colpiti di fronte ad un’epidemiologia difficile.
Basse e bassissime dosi di radiazioni ionizzanti (microdosi) possono
avere come effetto di danneggiare il DNA cellulare, cioè la
macromolecola che contiene l’informazione genetica trasmessa nella
riproduzione delle cellule. Esistono evidenze assai stringenti della
correlazione tra mutagenesi ed insorgenza di tumori o, più in generale,
di indebolimento delle difese della cellula stessa. Si tratta di
meccanismi che possono avere un lungo periodo di latenza prima di
manifestarsi. Riprova della crescente preoccupazione sugli effetti delle
basse dosi di radiazioni è l’ordinanza dell’Epa (ente governativo USA
per la protezione dell’ambiente, ndr) che riduce di ben volte i limite
di dose da attività che implichino esposizione a radiazione per la
popolazione».
Italia fuorilegge - Per tutti gli approdi nucleari
devono essere predisposti gli opportuni piani di emergenza esterna che
obbligatoriamente devono essere comunicati alla popolazione. Al momento
invece in Italia non è possibile per i cittadini essere informati (in
violazione dell’articolo 129 del Decreto legislativo 230/1995) perché
questi piani vengono classificati come “segreti”. Laddove i piani sono
stati predisposti (con grande ritardo) come nel caso di Trieste, si
scopre con stupore (sono occorsi anni per realizzarli) l’inconsistenza
degli stessi: in caso di emergenza reale è davvero angosciante pensare
che la vita di decine di migliaia di persone dipenderebbe da questi
pezzi di carta contenenti disposizioni inattuabili. E proprio per la
continuità di questi atteggiamenti antidemocratici posti in essere a
danno della collettività e in aperta violazione della legislazione
comunitaria, l’Italia è stata deferita nel giugno del 2006 alla Corte di
Giustizia Europea. Le violazioni riguardano le direttive 96/29 e
89/618/ Euratom. Nelle motivazioni del deferimento si evidenzia: «La
Commissione europea ha deciso di adire la Corte di giustizia a causa
della non conformità della legislazione italiana con le norme Euratom
riguardanti la predisposizione dei piani di emergenza e l’informazione
preliminare da fornire obbligatoriamente alla popolazione in caso di
emergenza radiologica. L’esistenza di una normativa nazionale completa e
trasparente è un presupposto essenziale se si vuole garantire un
livello elevato di protezione della popolazione dagli effetti delle
radiazioni ionizzanti. Specie per quanto riguarda la preparazione alle
emergenze radioattive, l’informazione preliminare dei cittadini è di
capitale importanza per ridurre al minimo le conseguenze sanitarie in
caso d’incidente radiologico».
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