Di Alessandra Principe -
Dalla notte dei tempi l’uomo si interroga sull’esistenza di forme di vita extraterrestre
e, checché se ne dica riguardo a possibili avvistamenti di U.F.O o
qualsiasi altro oggetto sospetto fluttuante nel nostro cielo, tutt’oggi
la scienza non è in grado di fornire prove concrete circa la presenza di
forme di civiltà aliene.
Forse, però, un errore di fondo c’è e
potrebbe essere proprio questo ad offuscare il quadro ancora troppo
sconosciuto di mondi abitati diversi dal nostro. Sin ora, infatti,
l’unica forma di contatto ritenuta valida per venire a conoscenza
dell’esistenza di civiltà aliene è quella via radio, mezzo di
comunicazione piuttosto scontato per noi esseri umani. Ma siamo sicuri
che un’eventuale presenza extraterrestre riconosca questo modo di
comunicare? E soprattutto: siamo sicuri che questa presenza senta la necessità di mettersi in contatto con noi?
Non sarà che qualcosa o qualcuno si sia fin ora semplicemente limitato
ad osservarci “in silenzio”, in modo discreto, col chiaro intento di non
essere scoperto? Certamente, osservando le cose da questa prospettiva,
aspettare di essere contattati, di ricevere un segnale via radio,
costituisce un approccio definito da molti scienziati “passivo” e quindi
inefficace.
Per questi motivi, un nuova nuova via
per la ricerca degli extraterrestri sta prendendo piede fra gli studiosi
del settore grazie al sostegno degli scienziati del progetto SETI
(Search for extra-terrestrial intelligence), sempre più propensi per
una forma di contatto col mondo alieno di tipo “attivo”, usufruendo di
osservazioni astronomiche già disponibili e soprattutto dell’importante
contributo fornito dal matematico e fisico teorico britannico Freeman Dyson,
il quale nell’ormai lontano 1959 aveva formulato l’ipotesi secondo la
quale le civiltà aliene disporrebbero di una tecnologia di gran lunga
più avanzata della nostra, capace di sfruttare l’energia prodotta dalla
propria stella, il che produrrebbe una sfera, chiamata appunto “sfera di
Dyson”, rilevabile dal calore che produce utilizzando i telescopi per
le osservazioni nello spettro infrarosso. Ovviamente, non si tratta di
una sfera nel senso concreto del termine, bensì di un accumulo di
energia elettromagnetica.
Dal 1959 ad oggi, la teoria di Dyson,
per quanto “marginale”, ha avuto un seguito nel 1983 con il lancio
dell’IRAS (Infrared Astronomical Satellite), ossia il primo osservatorio
spaziale per l’esplorazione del cielo in luce infrarossa. Oggi, lo
scienziato Richard Carrigan, insieme ad altri collaboratori del SETI
Institute, ha raccolto tutti i dati inviati dal satellite per capire se
siano state da questo individuate delle possibili Sfere di Dyson nello
spazio infinito, prova dell’esistenza di civiltà aliene.
Attualmente i risultati non sono stati i
più soddisfacenti, confermando quanto rilevato dal semplice contatto
via radio. Gli scienziati, però, non si arrendono. Se è vero, infatti,
che fin ora non si sono ottenuti i risultati sperati, è altresì
indiscutibile il fatto che un cambio di approccio allo studio di forme di vita extraterrestre,
costituisce di per sé una novità tutta positiva. Chissà che questo
cambiamento di prospettiva, del modo di scoprire se e chi dal proprio
mondo ci osserva silenziosamente, non sia la matrice per il sorgere di
nuovi interrogativi e di altrettante nuove, forse inaspettate, risposte.
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