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Saturday, May 14, 2011

Giappone, i condannati del nucleare

Nel paese asiatico il lavoro sporco nelle centrali è affidato a interinali esposti al pericolo senza alcuna preparazione . Secondo alcune ricerche tra il 1970 e e il 1983 sarebbero stati duecento i lavoratori morti per esposizioni alle radiazioni

di Simone Pieranni

Giappone, i condannati del nucleare

Li hanno chiamati i Nuclear Samurai: persone arruolate in fretta e furia per andare a domare le fuoriuscite della centrale nucleare di Fukushima
. In cambio, la morte da eroe. Come ricompensa, circa 5.000 dollari al giorno, per andare a tappare buchi con calcestruzzo e giornali bagnati, e gettare acqua sui reattori. Si dice siano ingegneri: la realtà è che sono poveracci senza niente più da chiedere alla vita, se non un rimborso per le proprie famiglie. Soldi che spenderanno altrove, perché Fukushima ormai è zona off limits.

Con un van e alcuni volontari arriviamo fino a nove chilometri circa dal reattore numero 1 di Fukushima: paesi fantasmi, quelli non massacrati dallo tsnuami. Casette, piccole ville, tanti cani ormai randagi. Valori delle radiazioni alti, si torna indietro. A una ventina di chilometri, appena dopo la zona di evacuazione, incontriamo un drappello di persone. Sono in ciabatte, vestite con il pigiama, giacche sulle spalle; lo sguardo sul nostro van che si avvicina non è dei migliori. “Andatevene”, ci dicono. Sono lavoratori, ex lavoratori della centrale, tornati nella zona evacuata, alla faccia degli avvisi e degli allarmi: la loro casa è lì. Anzi era lì, perché adesso vivono in un albergo economico, circondato da negozi e piccoli centri commerciali chiusi. Non vogliono parlare, dicono solo: “Andatevene”.

Nel loro volto la sensazione che tutto sia sbagliato: loro, le centrali, il Giappone. Alla ricerca di una normalità che avrà bisogno di chissà quanto tempo, prima di fare capolino nelle vite di queste persone: lavoratori, uomini e donne la cui vita dipendeva dall'atomo. Secondo ricerche del 1983, effettuate da gruppi antinuclearisti nella prefettura di Fukushima, tra il 1970 e il 1983 sarebbero stati duecento i lavoratori morti per esposizione alle radiazioni durante la vita ordinaria delle centrali. Numeri vecchi, per un problema quanto mai contemporaneo.

Ci sarebbero dei precedenti, delle parole già usate, dei ritorni storici rispetto a tutto quello che è accaduto in Giappone a partire dalla scossa sismica e dallo tsunami dell'11 marzo 2011. Tanto per cominciare il governo non ha mai dato ascolto al movimento antinuclearista riguardo al pericolo insito nel costruire centrali atomiche in zone a rischio sismico. C'è poi la corsa sfrenata al consumo energetico, che giustifica le centrali, in un percorso storico di omissioni e di scandali nascosti. Per dare luce a Tokyo sembra valere ogni sfida, ogni paradosso, ogni sacrificio. “Togli Tokyo al Giappone e il paese economicamente affonda”, mi dice un attivista di Koenji, zona ovest della capitale, il quartiere più in movimento della città. “Togli Tokyo, però, e forse il bisogno di consumo energetico del paese – aggiunge – si riduce a un decimo di quello attuale”.

C’è anche un’espressione, in giapponese, che suona terribile alla luce di quanto accaduto, perché esiste da prima dello tsunami e della successiva catastrofe nucleare. L’espressione è gempatsu shinsai, che significa letteralmente: “Disastro nucleare come conseguenza di uno tsunami”. Nonostante questa “consapevolezza” nessuno del già traballante governo di Naoto Kan, un democratico e onesto politico cui manca forse la personalità per imporsi a cricche economiche consolidate, ha mai preso in considerazione questa tragica eventualità.
Se non bastassero le parole, a futura memoria, c’era anche uno struggente documentario realizzato nel 1995 dalla Bbc. Si intitola Nuclear Ginza ed è un documento storico che descrive le condizioni di vita dei lavoratori delle centrali: poveracci sottoposti a livelli radioattivi più alti rispetto a quanto consentito dalle convenzioni internazionali, con un tempo di vita che si misura in microsievert.

Sono i nuovi barakumin, letteralmente “abitanti dei villaggi”, come viene chiamata la feccia sociale in Giappone, in ricordo di quando il paese era ancora diviso in caste. Nel documentario questi lavoratori “raccolti” praticamente per strada raccontano la loro esposizione alle radiazioni nella gestione quotidiana delle centrali. Sono storie di morte e di disinteresse da parte di governo e Tepco (l’azienda che gestisce le centrali nucleari, ndr) una volta scoperte malattie e problemi di salute. E sono identiche, queste storie, a quelle ascoltate dopo il disastro di Fukushima. Lavoratori arruolati da agenzie interinali (prima era caporalato puro, con il camioncino che girava tra i villaggi), senza alcuna preparazione specifica e costretti a lavorare a contatto quotidiano con livelli radioattivi anche in questo caso superiori a quelli previsti dalle norme sancite dagli organismi internazionali. E poi abbandonati, una volta rivelatisi usurati per quel tipo di lavoro. Li hanno chiamati gli zingari dell'atomo, perché assunti da ditte cui la Tepco subappalta il lavoro sporco e costretti a girare di centrale in centrale per sottoporsi alla routine quotidiana della gestione delle centrali nucleari. La storia raccolta da Afp e ripresa da tutti i quotidiani del mondo non è diversa da quelle raccontate dalla Bbc quindici anni fa, da quelle che sono le voci che ogni giapponese conosce riguardo agli zingari dell'atomo: sfruttamento e verosimilmente morte.

Kohno ha 44 anni, lavorava a Fukushima. Dopo il disastro ha ricevuto una mail: serve il tuo aiuto alla centrale. È andato: “Tra lavoratori ci diciamo sempre che il Giappone era stato completamente distrutto dopo la seconda guerra mondiale. Ora siamo di nuovo rasi al suolo. Cambia il campo di battaglia, ma siamo noi i kamikaze di oggi”, ha detto. Senza una famiglia, ma pur sempre da fratello maggiore, è andato: pronto a lavorare senza sosta, nutrendosi di cibo in scatola e barrette energetiche. Novello kamikaze verso la morte sicura.

Fonte: http://www.rassegna.it




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