Un eccentrico e commovente ufo italiano, una fiaba lunare, una storia malinconica dove la risposta è nelle stelle
Il Professore (Valerio Mastandrea) ha perso la moglie e da allora vive rinchiuso in una bolla nel deserto del Nevada, accanto all’Area 51
che, com’è noto, pullula di alieni. Dovrebbe lavorare a un progetto
segreto per conto degli Stati Uniti, ma in realtà passa le giornate su
un divano in ascolto del suono dello spazio.
Quando muore suo fratello Fidel (Gianfelice Imparato), gli vengono affidati i nipotini Anita (Chiara Stella Riccio), 16 anni, e Tito (Luca Esposito),
7 anni: la sua esistenza ne uscirà completamente scompaginata. È questa
la premessa, infantile e surreale, magica ed extraterrestre, da cui
prende vita Tito e gli alieni, un eccentrico e commovente ufo italiano, in tutti i sensi e a tutti i livelli.
C’è il fantasma lontano di Las Vegas, nel folle e squinternato spaghetti sci-fi di Paola Randi,
che non a caso lìha girato ad Almería, in Spagna, località che ancora
oggi ospita i set di Sergio Leone (ma ci hanno girato anche Game of Thrones). Ma anche quello, solo invocato dalla giovane e incontenibile ragazzina napoletana protagonista, di Lady Gaga, che sopravvive però nella delicatezza sopra le righe e nei travestimenti sgargianti della Stella di Clémence Poésy, ragazza che organizza matrimoni per turisti a caccia di marziani.
Il film, prezioso per ambizioni e vocazione editoriale, trova un
dolce e delicato equilibrio, irripetibile e tutto suo. Si muove tra poesia infantile e incanto artigianale,
per una tecnologia fantascientifica di matrice malinconica, che
rintraccia nell’archeologia vintage una precisa e immediata idea di
fiabesco (Linda è la versione dolce e femminile di HAL 9000 di 2001). Lunare, certo, ma sempre perfettamente intelligibile, per tutti i tipi di pubblico e a tutte le latitudini.
Non sempre a fuoco ma sempre pronta a far breccia, inventiva,
generosa, dal cuore così grande da poter guardare a viso aperto
l’Universo e lo Spazio, setacciandoli alla ricerca degli affetti perduti e di una memoria familiare condivisa, facendo in conti con la paura della morte e del dolore,
tra sonnolenza e batticuore. Delle cuffie, un’antenna puntata verso il
cielo, e via sognando, con leggerezza stralunata e toccante, perché in
fondo non serve nient’altro.
Come in Lazzaro felice torna anche la Luna,
vero leitmotiv del cinema italiano più vivo e coraggioso di questi
tempi incerti. Ma qui non è, come nel film di Alice Rohrwacher, un
orizzonte perduto cui tendere, ma uno scrigno di tesori, come fossimo in un Orlando Furioso dell’Ariosto
rovesciato di segno: non un ricettario di vizi che fanno perdere il
senno, ma un deposito condiviso, dove ritrovare tutto quello che abbiamo
perduto e che ci consente di riscoprirci umani.
Tutti indistintamente convinti, cowboy e improbabili scienziati spaziali, adulti e bambini (messa così, sembra quasi Toy Story), di essere i custodi dei segreti più profondi dell’Universo e dunque tutti ugualmente fragili e donchisciotteschi,
destinati al fallimento cavalleresco e alla consolazione agrodolce
della favola scritta nelle costellazioni (e nella polvere di stelle).
Proprio come il ricordo di chi abbiamo perduto.
Mi piace: la proposta editoriale di una fantascienza italiana naïf e curiosa, eccentrica e struggente.
Non mi piace: qualche momento e oggetto più
episodico negli eventi e nelle scenografie, ma sono difetti e
intermittenze che non inficiano la purezza e l’onestà dello sguardo
della regista del già curioso e fuori norma Into Paradiso.
Consigliato a: chi cerca un cinema italiano davvero alieno, privo di un’identità geografica univoca, capace di suggestionare affettuosamente i nerd con i suoi ninnoli sci-fi, di trasportare in dimensioni altre, di coccolare lo spettatore e, perfino, di far sognare.
Davide Stanzione
Fonte
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