L’Occidente e la Russia dovranno vendere armi ai loro alleati e clienti per recuperare i bilanci della Difesa. Più difficile spiegare all’opinione pubblica che queste guerre hanno portato il terrorismo in Europa e centinaia di migliaia di profughi che continueranno ad affluire dalle aeree di conflitto, scendendo a patti con autocrati come Erdogan perché non riapra il rubinetto dei rifugiati. Anche qui però la politica aiuta: basta dire come il generale Mattis che il terrorismo non è più il principale obiettivo ma quello di contenere Mosca e Pechino
L’ora più buia è arrivata con la
macchina di propaganda dei media italiani, tv e giornali, a favore
dell’attacco americano. Tutta colpa di Assad, questo è il leit motiv.
Eppure la guerra a Gheddafi del 2011 voluta da Sarkozy e subito
appoggiata da Usa e Gran Bretagna avrebbe dovuto insegnarci qualche
cosa. Non c’è un minimo di analisi, per altro spesso condotta da
cosiddetti esperti che non hanno mai messo piede né in Siria né in Medio
Oriente e neppure hanno mai visto una guerra, se non in televisione.
Trascurabile che la rivolta contro Assad si diventata ben presto, dalla
fine del 2011, una guerra per procura combattuta da migliaia di
jihadisti fatti passare dalla Turchia con l’approvazione degli Stati
Uniti e i finanziamenti delle monarchie del Golfo. Trascurabile il fatto
che la destabilizzazione di un’intera regione sia stata provocata dalla
guerra del 2003 contro Saddam. Gli Usa attaccano Assad non per motivi
umanitari ma per giustificare i loro fallimenti tra cui la mancata
protezione degli alleati curdi e il cambio di campo della Turchia.
Guerra al terrorismo non è più una priorità
Gli Usa avranno, forse, amare
soprese, soprattutto perché non si capisce quale sia l’obiettivo
strategico di questo attacco, su quale scala e con quali conseguenze,
tenendo presente che Putin dovrà sostenere il regime di Damasco e che
gli americano hanno oltre duemila uomini schierati nel Nord della Siria.
La realtà è che queste sono guerre che non finiscono mai e che forse
mai vinceremo. Eppure la novità della globalizzazione è proprio questa:
vincere le guerre non serve. Per coprire veri o presunti fallimenti
basta fare la dichiarazione opportuna: qualche tempo fa James Mattis, il
capo del Pentagono, è stato chiaro, la guerra al terrorismo non è più
una priorità, i veri nemici sono Russia e Cina. Basta cambiare
obiettivo, come si cambia un vestito, e tornare al classico della guerra
fredda o riscaldata.
Il sospetto che vincere la guerra
non fosse più un obiettivo ci aveva già colti a Baghdad nel 2003, quando
il Paese sprofondò in un marasma dal quale non è più uscito. L’Iraq
era stato in guerra otto anni con l’Iran (1980-88), Saddam Hussein aveva
invaso il Kuwait nel ’90 e poi era stato sconfitto nel ’91 da una
coalizione a guida americana. Dodici anni di sanzioni poi il dittatore è
caduto ed è cominciato un decennio di terrorismo. Infine, nel 2014, è
arrivato anche il Califfato. In questi anni non si è mai visto niente
di più ipocrita e di meno umanitario delle guerre “umanitarie”, di
guerre per “esportare la democrazia” e “salvare popoli” che sono stati
poi abbandonati a un destino che neppure loro hanno potuto decidere. Chi
oggi ragionevolmente può prevedere la pacificazione dell’Afghanistan,
il conflitto più lungo e costoso mai intrapreso dagli Stati Uniti?
Dopo avere proclamato che avrebbe
ridotto la presenza militare a Kabul, anche il presidente americano
Donald Trump ha deciso di aumentare le truppe Usa, da 8mila a oltre
14mila uomini. Ma è una guerra che si può vincere? Sembra di no perché
nel 2007-2008 c’erano tra truppe americane e Nato oltre 150mila uomini e
oggi almeno un terzo del territorio afghano è controllato dai talebani o
dai gruppi jihadisti. “Prima regola della politica: mai fare la guerra
in Afghanistan”, disse il premier britannico Anthony Eden negli anni
Trenta. Ma soprattutto mai fare la guerra in Afghanistan senza avere
degli alleati tra i vicini dell’Afghanistan. Gli Usa si oppongono
all’Iran, considerato un regime da cambiare e Trump ha anche litigato
con il Pakistan congelando gli aiuti americani. Il vero motivo
dell’acredine di Washington è che i pakistani sono alleati di Pechino e
ospitano 13mila soldati cinesi. Il Pakistan considera l’Afghanistan
parte della sua profondità strategica, difficilmente sarà pacificato
senza la sua collaborazione.
Un altro esempio di guerre che con
finiscono mai è la Libia. Nel 2011 i francesi gli inglesi e gli
americani bombardarono il Colonnello Gheddafi. Erano già caduti il
tunisino Ben Alì e l’egiziano Mubarak, questo era il loro tentativo di
dirigere da fuori le primavere arabe prendendo il controllo delle
risorse energetiche e della geopolitica della regione. Già allora si
capiva che la rivolta di Bengasi avrebbe spaccato il Paese, una creatura
coloniale italiana: Tripolitania da una parte, Cirenaica dall’altra.
Mentre i confini della Libia sprofondavano di mille chilometri, aprendo
la via a un enorme flusso di profughi e alla destabilizzazione jihadista
di Al Qaida e poi dell’Isis. Dopo la disgregazione dell’Iraq ne
cominciava un’altra.
Come se questo non bastasse la
Francia, l’Egitto e la Russia hanno sostenuto in questi anni il generale
Khalifa Haftar, oggi secondo alcune fonti gravemente malato, con l’idea
di mettere un uomo forte a capo del Paese. Ma neppure Haftar, dopo
avere annunciato la liberazione “definitiva” di Bengasi da salafiti e
jihadisti, ha mai controllato completamente la Cirenaica. Non è più
tempo di dittatori “forti” alla Saddam, che poi magari sfuggono al
controllo, ma di autocrati a mezzo servizio che possono essere
manovrati. Assad è un esempio. Dopo aver pensato di abbatterlo, si è
capito che è meglio lasciarlo al suo posto, dimezzato, a fare il “lavoro
sporco”.
La Siria è la guerra più devastante di tutte
La peggiore perché studiata a
tavolino per sfruttare la rivolta popolare non soltanto per cambiare un
regime ma l’intero assetto geopolitico del Medio Oriente. Un’operazione
fallita in Iraq per l’alleanza tra il governo sciita di Baghdad e
l’Iran. E’ stato il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, con il
pieno appoggio di Francia e Gran Bretagna, a dare il via libera alla
Turchia per aprire “l’autostrada del Jihad” e far affluire migliaia di
combattenti in Siria. Una sorta di Afghanistan a un passo
dall’Europa. Il 6 luglio del 2011 l’ambasciatore Usa Ford passeggiava
con i ribelli di Hama, era il segnale che il conflitto poteva cominciare
con il sostegno logistico della Turchia e quello finanziario
dell’Arabia Saudita e del Qatar. Assad si sera rifiutato di rompere
l’alleanza con l’Iran degli ayatollah, nemico giurato di americani,
sauditi e israeliani, un ostacolo alle mire egemoniche di Erdogan sugli
arabi.
L’intervento della Russia nel 2015
ha cambiato il destino della guerra e la Turchia ha dovuto piegarsi a
Mosca e Teheran. Ora Erdogan prova a incenerire i curdi siriani,
ritenuti alleati del Pkk che da quasi 40 anni conduce la guerriglia nel
Kurdistan turco. Pe ottenere questo obiettivo la Turchia, membro storico
della Nato, si è messa d’accordo con Russia e Iran, i due avversari
dell’Alleanza Atlantica. Gli Usa hanno così lasciato che i turchi
creassero una “fascia di sicurezza” dentro al territorio siriano
massacrando i curdi siriani, i veri alleati di Washington nella guerra
contro l’Isis. Dopo avere usato i curdi contro il Califfato, gli
americani stanno mettendo le loro basi nel Nord della Siria. Questo
attacco americano potrebbe avere come scopo proprio questo: partecipare
alla spartizione della fette di torta siriana dove finora le parti le ha
fatte Putin.
In cambio della fascia di sicurezza
turca, la Russia e il governo di Damasco avranno mano libera per
recuperare il controllo di Idlib e dei pozzi petroliferi. Israele è
soddisfatto perché con queste presenze militari straniere (comprese
quelle delle milizie filo-sciite e di quelle sunnite) si legittima
ancora di più l’occupazione israeliana del Golan in corso dal 1967. Ma
le guerre che non finiscono mai costano. Quindi l’Occidente e la Russia
dovranno vendere armi ai loro alleati e clienti per recuperare i bilanci
della Difesa. Più difficile spiegare all’opinione pubblica che queste
guerre hanno portato il terrorismo in Europa e centinaia di migliaia di
profughi che continueranno ad affluire dalle aeree di conflitto,
scendendo a patti con autocrati come Erdogan perché non riapra il
rubinetto dei rifugiati. Anche qui però la politica aiuta: basta dire
come il generale Mattis che il terrorismo non è più il principale
obiettivo ma quello di contenere Mosca e Pechino. In questo contesto la
pace sembra davvero una cosa da ingenui. Non serve vincere le guerre ma
farle, soprattutto un pò lontano da casa.
Alberto Negri
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