Uno spettro si aggira per il Mar Giallo: lo spettro di una portaerei. Alle 5.40 del 10 Agosto la prima portaerei cinese della storia ha lasciato le nebbie del porto di Dalian per iniziare un collaudo in mare la cui durata non è stata ancora resta nota. In un’area larga 13,25 miglia nautiche e lunga 22 miglia nautiche interdetta alla navigazione dalle autorità della provincia di Liaoning, va in scena il crescente potere marittimo cinese. Né il luogo né la data sono stati lasciati al caso. Il porto di Dalian dista sole 80 miglia nautiche dalla foce dello Yalu dove nel Settembre 1894 la Marina Imperiale Giapponese annientò la flotta della Marina Beiyang, parte di quell’esercito regionale fiore all’occhiello della Dinastia Qing. Il giorno ricorda invece il 10 agosto 1929 in cui Chiang Kai-shek, leader del Guomindang e futuro fondatore della Repubblica di Cina o di Taiwan, declinò la proposta dell’ammiraglio Chen Shaokuan di iniziare la costruzione di portaerei per timore di un crescente potere della Marina. 82 anni dopo quel rifiuto, la Cina si presenta come uno stato unito sotto il pugno di ferro del partito e capace di convogliare le proprie energie in progetti di lungo respiro.
La portaerei in questione è la Varyag o, come sarà rinominata a breve, la Shi Lang in onore dell’ammiraglio che nel 1681 conquistò il regno di Taiwan. Seconda nave di classe Admiral Kuznetsov prodotta dall’Unione Sovietica a partire 1985, subì un cambio di proprietà nel 1991 venendo assegnata all’Ucraina nell’ambito della divisione delle spoglie del disciolto impero. Incapace di trovare i fondi per sovvenzionarne la costruzione, lo stato ucraino decretò la fine del progetto nel 1992 iniziando uno smantellamento della nave medesima che si protrasse nel porto di Nikolayev fino all’aprile 1998. Quell’anno la nave venne ceduta per soli 20 milioni di dollari ad una compagnia turistica cinese ufficialmente interessata a trasformarla in un Casinò sul modello di quanto fatto con altri due portaerei, la Minsk e la Kiev. Inutile dire che le intenzioni subirono una svolta radicale in corso d’opera. Dopo un viaggio di quasi 30.000 chilometri la nave giunse il 3 marzo 2002 nel porto di Dalian dove subì un ulteriore cambio di proprietà divenendo parte della PLA-NAVY, la marina dell’esercito cinese.
Sotto questa definitiva bandiera la Varyag ha quindi preso il largo qualche giorno fa tra la curiosità, il timore o la manifesta ostilità di diverse nazioni, Stati Uniti e Giappone in testa. Nell’era della “quarta dimensione” della guerra, il cyberwarfare condotto tramite la rete, e dei caccia capaci di viaggiare da Londra a Sidney in un’ora – è il caso dell’Unmanned Falcon Hypersonic Technology Vehicle 2 prodotto dell’aviazione USA alle prime fasi di collaudo – una nave proveniente dal passato della guerra fredda sembra capace di sconvolgere gli equilibri di una regione tra le più instabili al mondo.
In verità esistono fondati dubbi che la Varyag, con i suoi 304 metri di lunghezza, sia capace di spostare l’equilibrio di potenza locale a favore della Cina a causa delle sfide tecniche che la PLA-NAVY dovrà affrontare. Secondo analisti come David Axe o Yin Zhuo del PLA la costruzione di un gruppo di battaglia basato sull’utilizzo di una portaerei richiede almeno 10 anni e lo sviluppo di tattiche e mezzi su cui la Cina non possiede un’expertise paragonabile a quella americana. Nessuna Pearl Harbour all’orizzonte si potrebbe dire. Tuttavia non si può trascurare né l’impatto simbolico che quest’azione sta avendo sugli stati direttamente interessati dalle rivendicazioni territoriali cinesi, né le conseguenze di lungo periodo.
Nel primo caso si può affermare che a subire le conseguenze di un’ulteriore proiezione marittima cinese non saranno gli Stati Uniti ma paesi come il Giappone per le isole Ryukyu, il Vietnam per le isole Paracel e le Spratly (contese anche da Filippine, Malesia e Brunei) e l’India con cui la Cina ha una partita aperta dal 1937 per il confine terrestre dell’Arunachal Paradesh che si è già risolto in un conflitto nel 1974. Le intenzioni cinesi non sono chiare al riguardo. Più volte è stato dichiarato che la Varyag svolgerà solo compiti di addestramento e ricerca e che non cambierà la politica militare difensiva di Pechino. Si è affermato anzi che una marina cinese più potente sia nell’interesse del mantenimento della sicurezza marittima globale in tempo di pace come hanno dimostrato le azioni condotte nel Golfo di Aden per contrastare la pirateria. Tuttavia si sta pur sempre parlando di una nazione in espansione, con un bilancio alla difesa cresciuto del 12.7% nel 2011 (per un totale di 65.5 miliardi di euro) e affamata di risorse energetiche di cui il Mar cinese Meridionale e Orientale abbondano. Nel report annuale del 2010 intitolato “Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China”, il ministero della Difesa Americano ha calcolato in 7 trillioni di gas naturale e oltre 100 miliardi di barili di petrolio le riserve che risposano nei pressi delle miriadi di scogli contesi. Considerata la posta in gioco, la Varyag non potrà che essere la punta di un iceberg.
Secondo il Pentagono, immagini dai satelliti rivelerebbero che altre due portaerei sarebbero in costruzione allo Jiangnan Shipyard in Shanghai. Tre portaerei sarebbero decisamente un problema per la capacità statunitense di intervenire a favore di Taiwan come nel 1996, ma sicuramente non un ostacolo insormontabile per una marina che ne possiede undici e che risulta più preoccupata dagli attuali programmi balistici cinesi piuttosto che dall’idea di remote battaglie navali. Il vero problema, come si è detto, riguarda i vicini della Cina che non possono dispiegare il suo stesso potenziale di sviluppo. Poco dopo il varo della Varyag, Taiwan ha annunciato di voler implementare lo sviluppo dei missili “carrier killer” Hsiung Feng 3 per rendere salda la difesa balistica dell’isola da questa nuova minaccia.
Malgrado le assicurazioni cinesi quindi, il varo del 10 Agosto non potrà che contribuire ad accrescere tensioni regionali già aggravate dal revival degli scontri a bassa intensità tra le due Coree negli ultimi giorni. Se gli europei giustamente latitano essendo affaccendati a fallire nella gestione di quanto succede nel loro cortile di casa, gli USA osservano con attenzione l’evolversi della situazione. Non soltanto per gli enormi interessi presenti nell’area, ma anche per la possibilità – assai remota ma pur sempre presente – che un conflitto nell’area possa estendersi, almeno a livello diplomatico, di gran lunga al di fuori dei confini della regione. La Cina è infatti parte dell’Organizzazione di Shangai che coinvolge stati come la Russia e che, pur incapace di tracciare una linea di politica estera univoca a causa della divergenza di interessi (come dimostra la decisione russa di sospendere le forniture di petrolio alla Mongolia, accusata di essere troppo vicina a Pechino), nel 2005 ad Astana riuscì a stabilire una tabella di marcia per l’espulsione degli USA dai territori degli stati membri. Tabella rispettata con la chiusura della base aerea K2 in Uzbekistan.
Ecco quindi che la decisione cinese apre a scenari dagli esiti incerti ma con il medesimo comun denominatore di accresciuta instabilità. Instabilità a cui gli Stati Uniti, sempre più ripiegati sulle proprie problematiche interne, difficilmente potranno offrire soluzione.
Fonte: http://www.libertiamo.it
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