Inserito da Francesco Calderone in Scienze, Ieri alle 00:08
Una ricerca condotta da Tomio Kawata, studioso della Nuclear Waste Management Organization del Giappone (NUMO), e trasmessa al governo di Tokyo lo scorso 24 maggio, ha rilevato che alcuni campioni di suolo prelevati aldilà della "no-entry zone", oltre 20 chilometri dal sito che ospita l'impianto di Fukushima Daiichi, registrano da 5 a 1,48 milioni di becquerel per metro quadrato; la stessa quantità (1,48 milioni di becquerel), nel 1986, valeva l'evacuazione intorno a Chernobyl.Le analisi effettuate da Kawata infatti hanno riscontrato in un sito, 25 km. a nord-ovest dalla centrale, radiazioni da cesio-137 superiori addirittura a 5 milioni di becquerel per metro quadrato, mentre in altri cinque campioni prelevati oltre 30 km. dalla centrale, hanno mostrato radiazioni superiori a 1,48 milioni Bq/mq.
Le radiazioni nel suolo intorno alla centrale di Fukushima I si sono diffuse in un'area di almeno 600 chilometri quadrati (meno del territorio della provincia di Lodi, fig.2), contaminando una zona relativamente ristretta se confrontata all'area evacuata in Ucraina e Bielorussia ancora off limits pari a 3100 chilometri quadrati (sempre per dare un metro di paragone, poco meno della provincia di Sondrio).
Il problema ora è quello di adottare nel più breve tempo possibile ogni opportuna soluzione, chimica o biologica, che possa in qualche modo sottrarre la terra contaminata alle radiazioni restituendola ai residenti prima che si trasformi in una dead zone come è avvenuto nella ex Unione Sovietica.
Le soluzioni possibili al momento appaiono essere due: piantare colture in grado di assorbire i radionuclidi di cesio (si è pensato ad esempio ai girasoli) oppure ricorrere ad un trattamento chimico del terreno mirato allo stesso fine magari con l'utilizzo delle zeoliti, minerali dalla struttura cristallina e porosa che potrebbero risultare funzionali allo scopo; Tetsuo Iguchi, esperto in rilevamenti e analisi radioattive della Nagoya University, ha commentato in merito: "abbiamo bisogno di svolgere i trattamenti il più presto possibile, entro tre anni al massimo, se passerà più tempo la gente rinuncerà definitivamente a tornare".
Aldilà della riuscita o meno di questi sistemi, è opportuno ricordare la particolare situazione geografica e demografica del Giappone: parliamo di un paese con pochissime pianure, sviluppato in lunghezza e tagliato in due dai rilievi, la cui popolazione vive in gran parte concentrata lungo le coste in città che sono delle vere megalopoli (paradigmatica è la Taiheiyo Belt, che si estende dalla prefettura di Ibaraki a quella di Fukuoka sommando in sè circa 80 milioni di abitanti); è di tutta evidenza che abbandonare un'area abitabile e lasciarla morire avrebbe ripercussioni ben maggiori in un paese con una densità come quella giapponese (337 ab./kmq.) rispetto, ad esempio, alla Bielorussia (46 ab./kmq.) che fu il paese maggiormente colpito dal disastro di Chernobyl.
Quel che è certo è che qualsiasi trattamento non può procedere speditamente e con successo fintanto che la situazione nell'impianto di Fukushima I non sia sotto controllo e si compia l'arresto a freddo dei reattori come stabilito nella road map predisposta dalla TEPCO (Tokyo Electric Power Company). Ci vorranno, se tutto andrà per il verso giusto, ancora alcuni mesi.
Fonte: http://technews.it/
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