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Tuesday, August 13, 2013

Kursk, 118 morti meno importanti di un calippo

Avevo 18 anni quando 118 miei coetanei (o poco più) videro l’acqua infiltrarsi dalle porte stagne del loro sottomarino affondato e, 107 metri lontani dall’aria fresca, capirono di stare per morire.
Era il 2000, l’anno del Giubileo, l’anno della Lazio campione d’Italia, Schumacher (l’unico e inconfondibile) e la Ferrari che trionfano in Formula 1 e Sergio Marchionne che annuncia l’accordo con GM.
Per centinaia di russi, parenti e amici dei marinai intrappolati sul fondo del mare di Barents, quell’anno finisce la notte del 12 agosto, la notte in cui qualcosa a bordo del sommergibile a propulsione nucleare Kursk, classe Oscar II, non andò per il verso giusto.
Una commissione d’inchiesta composta da oltre cinquanta investigatori indipendenti analizzò il relitto, ascoltò mille testimoni e decretò che a causare l’inabissamento del Kursk furono due, forse tre, esplosioni dovute ad un siluro da esercitazione difettoso che innescò una reazione a catena nel comparto degli armamenti. La prima deflagrazione uccise tutti i membri dell’equipaggio che si trovavano nel primo comparto, facendo affondare rapidamente il sottomarino fino a toccare il fondo, a quota -107 metri. A distanza di 135 secondi, una seconda e più forte esplosione coinvolse la Santa Barbara, ricoprendo il sommergibile di detriti e riducendo di fatto a zero le speranze di sopravvivenza dei 23 marinai superstiti.
“Tutto il personale dai compartimenti sei, sette e otto è stato spostato nel nono. Qui siamo in 23. Abbiamo preso questa decisione in seguito all'incidente. Nessuno di noi può uscire” scrive il giovane ufficiale Dimitry Kolesnikov pochi minuti dopo l’incidente. “Qui è troppo buio per scrivere, ma ci proverò a tentoni. A quanto pare non ci sono possibilità di salvarsi. Forse solo dal 10 al 20 per cento. Speriamo che almeno qualcuno leggerà queste parole. Qui ci sono gli elenchi degli effettivi che adesso si trovano nella nona sezione e tenteranno di uscire” spiega nel suo ultimo appunto prima di concludere con un coraggioso “Saluto tutti, non dovete disperarvi”.





Sono passate meno di 8 ore dall’affondamento, sul Kursk non c’è più nessuno in vita. Le navi mercantili in zona non ricevono più i segnali sonar prodotti dai marinai che battevano sulle paratie del sottomarino e tutti i tentativi di salvataggio nei successivi nove giorni risulteranno vani già in partenza.
Tra ritardi nelle comunicazioni ufficiali da parte della Marina Russa, rifiuto di accettare aiuti da altri paesi e condizioni meteorologiche avverse, quando i sommozzatori norvegesi del minisommergibile di soccorso britannico LR5 riescono finalmente ad aprire il portellone del Kursk trovano tutti i corridoi allagati: acqua, solo acqua, dovunque, anche dove non avrebbe dovuto essercene.
Mentre io ero in vacanza (e anche Putin si rilassava ancora in spiaggia), 118 ragazzi russi galleggiavano tra le lamiere di un gigante dei mari a un centinaio di miglia dalla costa norvegese.
Ci vollero due mesi e mezzo per portare in superficie i primi tre corpi, un giorno ancora per il successivo, mentre 78 famiglie chiesero di non avviare il recupero per non rischiare la vita dei sub e poco tempo dopo si seppe che i 23 marinai del compartimento 9 avevano deciso di spegnere il reattore nucleare del Kursk subito dopo la prima esplosione per evitare possibili contaminazioni radioattive in mare. Così facendo, ridussero ulteriormente le proprie possibilità di salvezza. Ad ottobre 2001 il Kursk venne rimorchiato alla base di Roslyakovo, dove vennero identificati 114 uomini. Dopo quasi un anno in fondo al mare, di 4 marinai non c’è nulla di riconoscibile.



Personalmente non mi importa che i punti da chiarire rimangano ancora molti, che le teorie sulla presenza e sulla responsabilità dell’incidente di due sommergibili americani fioriscano ancora e ipotizzino un clima da guerra fredda (per scusarsi dell’accaduto gli USA avrebbero concesso la cancellazione di un debito da 10 miliardi di dollari alla Russia), né mi sorprende l’atteggiamento ostruzionistico e negazionista tenuto dalle istituzioni militari e dalle autorità moscovite.
L’unica cosa che davvero mi indigna a tredici anni di distanza è che oggi i telegiornali parleranno di quanto sia importante bere tanto quando fa caldo, di giorni da “bollino rosso” in autostrada e della porcellina da compagnia appena arrivata in casa Balotelli. Come se quel mare in cui loro, noi, tutti andiamo a fare il bagno di Ferragosto si fosse già dimenticato di tutti quei marinai, pescatori, soldati ed eroi che trasformarono una passione (o un ideale o un semplice lavoro) in sacrificio.

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