Negli anni 60 il neuroscienziato John Lilly convinse l’agenzia spaziale a condurre un esperimento sui cetacei. Per prepararsi a comunicare con gli alieni
È stato un tempo in cui la Nasa insegnava l’inglese ai delfini per prepararsi a comunicare con gli alieni. Erano gli anni Sessanta: l’epoca in cui tutto sembrava possibile. Nel 1957 era andato in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik. Tre anni dopo, l’astrofisico Frank Drake aveva condotto la prima ricerca di intelligenze extraterrestri via radio. L’attesa di un imminente contatto con gli alieni – quanto meno sotto forma di segnali luminosi o radio – era condivisa tra gli astrofisici. Il problema era: in che modo avremmo potuto comunicare con loro?
John Lilly, neuroscienziato e psicoanalista (tra i primi a esplorare gli stati di coscienza attraverso l’assunzione di Lsd) era convinto che la risposta si trovasse nei delfini. Alla fine degli anni Cinquanta le sue ricerche sul cervello lo avevano portato sulla strada dei cetacei: a quel tempo gli scienziati erano convinti che esistesse una relazione diretta tra intelligenza e dimensioni del cervello. Per verificarlo, Lily si era messo a mappare la corteccia cerebrale dei delfini, e sarebbe andato avanti a lungo se un giorno uno dei suoi delfini-cavia non si fosse messo a imitare la sua voce e quella della sua assistente, Alice. Lilly si convinse che quel comportamento, in seguito osservato più volte, rivelasse un tentativo di comunicare con gli esseri umani. Oggi può sembrare scontato, ma all’epoca l’idea che potesse esistere una comunicazione tra specie diverse non era affatto diffusa. Lo era, invece, quella di un incombente incontro con civiltà aliene.
Nella casa-acquario
Fu così che la Nasa, su proposta di Lilly, assunse il delfino come modello di intelligenza extraterrestre, dando inizio a uno degli esperimenti più stravaganti e visionari della storia della scienza. A raccontarlo, sotto forma di romanzo, è ora la scrittrice canadese Audrey Schulman che in La casa dei delfini (Edizioni e/o) parte da una vicenda vera per poi mescolare con sensibilità romanzo ed etologia, scienza e speculative fiction. «Ho raccontato fatti realmente accaduti usando personaggi immaginari» spiega Schulman. E i fatti sono questi: «Nell’estate 1965, un’altra assistente di Lilly, la ricercatrice Margaret Lovatt, traslocò in una casa-acquario costruita appositamente per lei e Peter, un giovane delfino maschio. La struttura era interamente riempita con 45 centimetri d’acqua, in modo che Peter potesse nuotarvi a proprio agio; un letto, un tavolo e un fornello a propano pendevano dal soffitto, in modo che la Lovatt potesse condurre la sua vita quotidiana senza mai separarsi dall’allievo».
In evidenza lo sfiatatoio del delfino: è il suo organo respiratorio, posizionato sulla cima del capo (Getty images)
L’idea degli sperimentatori era che, con un contatto continuativo, Lovatt e Peter avrebbero sviluppato un rapporto di tipo madre-figlio, facilitando l’apprendimento linguistico del delfino. Non si sbagliavano. Ogni notte, Peter succhiava le dita dei piedi di Lovatt per addormentarsi. Separarsi da lei gli procurava sofferenza. Comunicare con lei, piacere. E per farlo si impegnò oltre le sue possibilità. «I delfini producono i suoni attraverso lo sfiatatoio (l’organo respiratorio che sta in cima al capo, ndr)» dice Schulman «non hanno lingua e labbra per articolare i suoni, eppure, nell’arco di tre mesi, Peter imparò a pronunciare le prime lettere dell’alfabeto. E anche il nome “Margaret”. Per farlo si ribaltava su un fianco immergendo lo sfiatatoio in acqua e poi lo riportava in superficie. Si esercitava per ore davanti a uno specchio (che i delfini si riconoscano allo specchio verrà dimostrato solo nel 2001 dalle ricercatrici Diana Reiss e Lori Marino). Esistono alcune registrazioni delle vocalizzazioni di Peter: sono stupefacenti».
Tuttavia, l’addestramento non fu a senso unico: anche Lovatt si ritrovò inconsapevolmente allieva del delfino. «A un certo punto» racconta Schulman, «divenne chiaro che Peter desiderava che Lovatt gli toccasse l’interno della bocca. Il motivo non era chiaro: forse gli prudevano le gengive, forse era un segno di intimità. Se ne stava lì a bocca spalancata, ma lei aveva troppa paura. Allora Peter elaborò una strategia.
Giochiamo a palla
Cominciò a giocare a palla con lei. Gliela lanciava con la bocca e
aspettava di riaverla. Ogni giorno la distanza dei suoi lanci si
accorciava. Lovatt pensò che dipendesse da un fastidio alla mandibola.
Dopo qualche settimana Peter ormai si limitava a tenere la palla in
bocca aspettando che lei gliela prendesse. Fu allora che Lovatt capì: il
delfino l’aveva convinta un po’ alla volta a prendere confidenza con la
sua bocca. L’aveva addestrata».
Peter non arrivò a padroneggiare il linguaggio umano, ma grazie agli
studi pionieristici di Lilly e Lovatt, che hanno ispirato generazioni di
biologi marini, oggi sappiamo che i delfini comunicano tra loro
attraverso una vastissima (e inesplorata) gamma di suoni, tra cui i
cosiddetti “fischi firma”, che forse svolgono la funzione di nomi
propri. «I risultati dell’esperimento non furono mai pubblicati su una
rivista scientifica. I media si gettarono sui risvolti più provocatori
(uno su tutti: per placare l’urgenza sessuale del giovane delfino,
Lovatt era costretta a «intervenire manualmente»), finendo per
screditare l’intero studio.
La storia non è a lieto fine: la casa-acquario chiuse dopo sei mesi per
mancanza di fondi; Peter fu trasferito in un angusto acquario di Miami
dove, di lì a poco, si lasciò morire. «A differenza degli esseri umani, e
della maggior parte degli animali, i delfini hanno una respirazione
volontaria. A volte, in cattività, smettono semplicemente di respirare».
Nessuno ha mai più tentato di insegnare l’inglese a un delfino.
Giulia Villoresi
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