Un lavoro meticoloso illumina una storia di rischi ignoti che tocca anche il nostro paese. Già negli anni '60 in Italia gli Stati Uniti avevano dispiegato diversi tipi di armi nucleari e che non erano conservate in maniera particolarmente soddisfacente
Eric Schlosser è un giornalista che ha compiuto un lavoro meticoloso sui materiali d’archivio declassificati, poi reso in “Command and Control”, un testo sulla storia della dottrina nucleare statunitense e sui suoi rischi, che ha riscosso numerosi e qualificati plausi.
LA STORIA DELLE BOMBE AMERICANE - Dallo sviluppo della dottrina al dispiegamento delle testate in altre paesi, fino ai problemi di sicurezza e agli incidenti, il libro di Schlosser copre diversi decenni di storia del dispositivo nucleare americano e offre uno scorcio completo e supportato da documenti originali pregni di dettagli, fino alle minute dei comitati di controllo del Congresso nei quali decisioni e problemi erano dibattuti e sviscerati in termini molto chiari. Tutti documenti conservati da National Security Archive e desecretati a richiesta, uno dopo l’altro, negli anni.
LA DETERRENZA - Alla posizione di chi pragmaticamente diceva che l’unica guerra nucleare che si poteva vincere era quella che si sarebbe cominciata per primi, che non ha mai portato fino all’idea di annichilire preventivamente i sovietici, s’impose quella che di rimediare con l’abbondanza, costruendo una capacità di colpire da moltissime direzioni e dall’aria, da terra e dal cielo, con un gran numero di vettori, assicurandosi così il conseguimento della massima deterrenza con il raggiungimento della capacità di scatenare la MAD (Mutual Assured Destruction), quella condizione per la quale i sovietici non potevano pensare di colpire gli Stati Uniti senza sfuggire al bombardamento completo del loro territorio.
UNA PERICOLOSA RIDONDANZA - Quando si pose per la prima volta il problema, gli esperti stabilirono che gli Stati Uniti già possedevano la capacità di colpire circa 80 milioni di sovietici anche dopo aver subito il peggior bombardamento e con gli anni le cose andarono “migliorando”, fino a che al termine della corsa agli armamenti le due potenze non accumuleranno arsenali sufficienti a distruggere più volte l’intero pianeta. La storia dice che i sovietici seguirono e a volte anticiparono gli americani e che presero a loro volta rischi simili. In un clima che a un certo punto della storia raggiunse la paranoia parossistica, si vendevano i bunker antiatomici ai privati e i militari escogitavano soluzioni ardite per difendere i comandi del dispositivo nucleare e la sua capacità di cogliere un eventuale attacco e rispondergli con efficacia.
PROGETTI FARAONICI - Il generale Robert McNamara ad esempio per risolvere il problema della vulnerabilità dei centri di comando e controllo propose nel 1963 di costruirne uno a grande profondità, oltre 1000 metri, proprio sotto il Pentagono. Con tanto di tunnel di collegamento fino alla Casa Bianca. Doveva resistere a colpi multipli con testate da 200/300 megatoni, ma non se ne fece niente, sarebbe stato troppo piccolo per ospitare quanto necessario. Il primo a dubitare delle dotazioni già cumulate fu Eisenhower, che in teoria era contrario alla “polverizzazione” dell’Unione Sovietica come risposta in caso d’attacco nucleare, ma che si trovò ad autorizzare una dotazione e uno schieramento di armi nucleari che la rendeva prevedibile, senza chiederne alcuna modifica. Ai tempi di Kissinger l’arsenale era già sovrabbondante e non restava molto da fare se non esercitare la proverbiale astuzia del Segretario di Stato, che decise di stare sul vago e di non confermare l’esistenza di una politica di risposta su allarme, assai diversa da quella di risposta dopo l’accertamento di un attacco nucleare.
DOTTRINA E AMBIGUITÀ - La risposta su allarme fu giudicata fin da subito troppo pericolosa ed esposta al rischio di degenerazioni come l’esplosione di un conflitto nucleare per errore, ma Kissinger ritenne opportuno non concedere ai sovietici alcuna sicurezza, convinto che l’ambiguità sul punto avrebbe complicato i piani dei sovietici, costretti a confrontarsi con scenari più ampi e a temere che gli Stati Uniti potessero decidere di usare gli ordigni nucleari in Vietnam o altrove la penetrazione sovietica provasse a sfondare la cortina di ferro. Se la definizione di conferma d’attacco evolverà fino alla necessità di rapporti di conferma di detonazioni di testate sovietiche sul territorio statunitense, ai comandanti militari verranno quindi distribuite istruzioni su come comportarsi in caso di morte o sparizione del presidente, in teoria l’unico autorizzato ad ordinare il lancio delle testate. Autorizzazioni rimaste segrete, anche perché necessariamente discutibili quanto sensibilissime sul piano sella sicurezza nazionale. I piani apparvero in tutta la loro rigidità a Kennedy, insoddisfatto dell’esistenza di una sola opzione che prevedesse unicamente un attacco distruttivo totale. Kennedy preferiva una risposta più flessibile, in particolare nel pieno della crisi attorno a Berlino si chiedeva se la risposta atomica poteva rappresentare un’opzione praticabile in caso di un colpo di mano russo.
GLI INCIDENTI - La ricerca ha tracciato anche gli incidenti che hanno coinvolto le testate nucleari, tutti in un modo o nell’altro già noti, e i meno noti problemi di sicurezza emersi negli anni. Una discreta lista, dall’incidente alla base di Sidi Slimane in Marocco nel 1953, quando un B-47 prese fuoco e il plutonio nell’atomica a bordo fuse sulla pista, fino alla famosa esplosione di un missile Titan all’interno del suo silo nel 1980, la cronaca ha restituito una serie d’incidenti che hanno dimostrato come tutto sommato le testate siano state in grado di sopportare incidenti catastrofici senza mai detonare. Anche quando un B-52 si ruppe in volo seminandole al suolo, solo una delle bombe arrivò davvero vicina a detonare, fermata solo dall’ultimo di 4 dispositivi di sicurezza. Tuttavia resta una scia di rapporti che segnalano clamorose deficienze rilevate nel corso degli anni, come quella della vulnerabilità di certe bombe ai fulmini, anche di quelle conservate nel nostro paese nella base di Ghedi, poi revisionate. La questione riguarda ormai la modernizzazione dell’arsenale nucleare americano, ma a giudicare dalle relazioni e dai documenti portati all’evidenza da Schlosser si può ben concludere che in passato nel nostro paese il rischio rappresentato da queste armi abbia raggiunto livelli notevolissimi. Almeno in rapporto agli standard per la gestione di oggetti come le testate nucleari, che dovrebbero essere maneggiate e custodite secondo protocolli di sicurezza ridondanti.
L’ARSENALE ITALIANO - Invece quello che si evince è che già negli anni ’60 nel nostro paese gli Stati Uniti avevano dispiegato diversi tipi di armi nucleari e che non erano conservate in maniera particolarmente soddisfacente. In particolare c’è un documento nel quale si discute in un comitato del Senato dell’affidamento di queste armi ad italiani e greci. Due sono i punti in discussione, se quelle armi siano ancora in “possesso” dei militari americani e se siano al sicuro. I senatori si trovano di fronte a un escamotage dei militari, che traducono il possesso con la “custodia”, risolvendo in tal modo che la presenza di americani a “custodire” le armi soddisfi la condizione di “possesso” imposta dalla dottrina e dalle leggi statunitensi, che in teoria vietavano di consegnare le armi atomiche ad altri paesi, pratica vietata anche dai primi accordi contro la proliferazione. Gli americani dispiegarono armi nucleari in diversi paesi europei nel quadro d’accordi bilaterali segreti e a volte, come nel caso in discussione, anche prima che questi accordi fossero formalizzati ufficialmente. In Italia e in Turchia spedirono i missili a medio raggio Jupiter, armarono gli aerei dell’epoca con bombe Mark 7 (o Mk-7), la prima bomba nucleare tattica dell’esercito americano, e fornirono batterie di Honest John, rampe di lancio mobili con missili nucleari a corto raggio. Era “un vettore tattico per armi nucleari da 5-25 ktm, al servizio dell’esercito, su gittate tra i 7 e i 48 km”, un’arma da schierare sul confine orientale in caso d’invasione sovietica, mentre gli Jupiter furono schierati nei pressi di Gioia del Colle.
SPARSI NELLA CAMPAGNA PUGLIESE - I senatori che discussero l’accordo si trovarono di fronte a una realtà nella quale i missili e le bombe erano nelle mani degli italiani e non proprio in condizioni di sicurezza ottimali, considerando la pericolosità degli ordigni. A Gioia del Colle c’era il comando di 30 missili Jupiter sparsi in un raggio di 30 chilometri in 10 postazioni da 3 intorno alla base nelle campagne pugliesi. I senatori avevano avuto qualche difficoltà ad accedere ai siti per verificarne le condizioni perché i governi di Grecia ed Italia temevano che le visite attirassero l’attenzione ed eccitassero la protesta dei comunisti contro la presenza delle armi nucleari. I senatori erano preoccupati perchè i Jupiter stavano sparsi per la campagna, belli in vista e puntati al cielo, anche in prossimità di strade e ferrovie. Piccole postazioni recintate, spesso in prossimità di boscaglie dalle quali chiunque li avrebbe potuti rendere inservibili anche solo prendendoli a fucilate. Per di più di notte erano illuminate come nient’altro intorno e visibilissime anche dal cielo. La possibilità teorica che i russi potessero neutralizzare le postazioni con poco sforzo esisteva. Ovviamente all’epoca non si temevano terroristi o l’intervento di altri attori, ma sembra evidente che non fossero vulnerabili solo da parte dei russi. Ai senatori americani però interessava di più la questione del possesso/custodia, che si rivelò spinosa, anche perché risultò che la “custodia” si risolveva in una presenza americana che “gli italiani” o i militari di altri paesi avrebbero potuto facilmente sopraffare, impadronendosi delle testate e ritrovandosi in grado di utilizzarle, con tanti saluti alla teoria della “doppia chiave”, un’altra clausola di salvaguardia che in teoria imponeva che le testate potessero essere lanciate solo con un doppio comando collegato agli ordini di Washington.
I NOSTRI RISCHI - Addio sicurezza e postazioni da 300 milioni di dollari dell’epoca l’una vulnerabili alle fucilate del primo che passava o anche peggio, ce n’era abbastanza per intervenire anche per l’amministrazione e per i militari, ma Kennedy e i comandi attesero a ritirare i Jupiter perché la tensione con l’URSS all’epoca era alle stelle per via della crisi dei missili a Cuba. Deficit di sicurezza che allarmavano gli americani e che per gli italiani forse rappresentavano un rischio diverso quanto più concreto, ma a Washington interessava solo la vulnerabilità agli attacchi dei sovietici o a possibili destabilizzazioni comuniste dei paesi ospiti. Evidentemente anche il caso ha contribuito ad evitare che queste armi e certe istallazioni diventassero oggetto delle mire d’estremisti o di qualche folle disegno criminale, in Italia come altrove.
Autore: Mazzetta
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