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Monday, January 19, 2015

Viaggio (quasi) al centro della Terra. Così la Nasa esplorerà il cuore dei vulcani

Al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena è nata una nuova famiglia di robot per sondare l'interno delle cavità. Positivi i primi test, che fanno pensare a futuri sviluppi nel campo dell'esplorazione spaziale
 
Viaggio (quasi) al centro della Terra. Così la Nasa esplorerà il cuore dei vulcani

Una nuova generazione. Incoraggiati dai risultati di questi primi test, Parcheta e colleghi hanno deciso di spingersi oltre, sviluppando la seconda generazione di VolcanoBot, leggermente più piccola della prima. VolcanoBot 2, completato di recente, misura 25 centimetri e ha delle ruote da 12 centrimetri, più robuste di quelle di VolcanoBot 1. Inoltre il nuovo prototipo ha un sistema per memorizzare su disco i dati e le immagini raccolte. Inoltre, il nuovo robot è dotato di un sistema di "occhi" elettronici ancora più sofisticati, per riprendere meglio le strutture interne delle fessure vulcaniche. VolcanoBot 2 dovrebbe avere il suo primo "battesimo del fuoco" il prossimo marzo, quando Parcheta e colleghi torneranno al Kilauea per continuare le esplorazioni condotte da VolcanoBot 1. Ma nel frattempo, alla Nasa c'è già di chi pensa ai vulcani su altri pianeti. Sulla Terra le fessure sono il principale canale che porta il magma in superficie, e lo stesso vale probabilmente anche per i vulcani che sono stati attivi nel passato nel Sistema Solare, ad esempio su Marte, Mercurio o sui satelliti naturali come la nostra Luna, Encelado, o Europa. Come potessero avvenire queste eruzioni vulcaniche extraterrestri resta ancora un mistero, e magari i VolcanoBot ci aiuteranno a svelarlo: "Negli ultimi anni, le sonde della Nasa hanno inviato immagini incredibili di caverne, fessure e ciò che sembrano camini vulcanici. Non abbiamo ancora la tecnologia per esplorarli, ma sono così allettanti!", aggiunge Parness. Nel frattempo, VolcanoBot 2 si prepara alla sua prossima discesa nelle viscere del vulcano. Un vulcano terrestre ma, non per questo, meno misterioso.

Nella pancia dei vulcani. "Non sappiamo esattamente come i vulcani eruttino. Abbiamo dei modelli, ma sono tutti molto, molto semplificati. Questo progetto mira ad aiutare a rendere quei modelli più realistici", sottolinea Carolyn Parcheta, una delle menti dietro ai VolcanoBot. Parcheta, che ora lavora come giovane ricercatrice al JPL, è sempre stata affascinata dai vulcani, ed è stata una delle prime a proporre l'idea di esplorarli con i robot. Un'idea senza dubbio innovativa, che le ha permesso anche di arrivare in finale al concorso Expedition Granted bandito dal National Geographic. Per realizzare questa idea, Parcheta ha lavorato sotto la supervisione di Aaron Parness e Karl Mitchell, esperti di robotica al JPL. Insieme, i tre hanno deciso di "riciclare" alcune parti del progetto Durable Reconnaissance and Observation Platform (DROP), un piccolo robot capace di scalare pareti verticali e di resistere a cadute dall'alto. È nato così l'anno scorso il primo prototipo della serie, chiamato VolcanoBot 1, che è largo 30 centimetri e si può muovere grazie a due ruote grandi circa 17 centimetri.

Un robot al guinzaglio. Dopo i primi test, VolcanoBot 1 è stato subito messo alla prova nel maggio dell'anno scorso. I ricercatori lo hanno fatto scendere lungo una fessura del Kilauea, uno dei vulcani oggi attivi alle isole Hawaii. Per cinque giorni il piccolo robot ha esplorato la fessura, al momento inattiva, scendendo a 25 metri di profondità e comunicando con la superficie attraverso un cavo dati. "Per poter capire come predire le eruzioni e condurre delle stime di rischio, dobbiamo capire come il magma arriva al suolo. Questa è la prima volta che siamo stati capaci di misurarlo direttamente, dall'interno, con una precisione a livello dei centimetri", ha ricordato Parcheta. Questi primi risultati raccolti da VolcanoBot 1 sono certamente all'altezza delle aspettative, e stanno aiutando a costruire una mappa 3D della fessura, che sembra continuare più in profondità anche dove il robot non è arrivato. La principale limitazione, ricordano gli scienziati, è infatti stata la lunghezza del "guinzaglio" di comunicazione dati, che non ha permesso di scendere più in basso.



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