E' impasse. Le conclusioni rinviate a oggi: manca un accordo sul documento finale che dovrebbe indicare gli impegni futuri
Roma, 08 dicembre 2012, Nena News - La
Conferenza delle Nazioni unite sul clima, che doveva concludersi ieri
sera a Doha, in Qatar, è nell'impasse. I negoziati sono proseguiti tutta
la notte, le conclusioni sono rinviate a oggi: manca un accordo sul
documento finale, che dovrebbe indicare gli impegni essenziali per
affrontare il cambiamento del clima terrestre negli anni a venire. E il
testo che circolava ieri sera ha suscitato grande disappunto nei
movimenti ambientalisti e sociali presenti a Doha. «Bocciamolo, condanna
il futuro di tutti», diceva la rappresentante di Jubilee South Asia
Pacific, la filippina Lidy Nacpil.
Eppure questi negoziati erano visti come cruciali per l'architettura
della politica del clima da qui al 2020 e oltre, sui due assi portanti:
mitigazione degli effetti (dunque riduzione delle emissioni) e
adattamento agli stessi (con relativi finanziamenti). Certo, tutti sanno
che il «negoziato vero» sarà nel 2015: quello per un accordo globale,
vincolante per i paesi industrializzati e per quelli in via di sviluppo,
per tagliare le emissioni di gas di serra responsabili del cambiamento
climatico.
Nel frattempo però sono sul tavolo diversi punti diciamo preliminari, ma decisivi. Uno riguarda un nuovo periodo del Protocollo di Kyoto, finora unico (anche se flebile) trattato sul clima con obblighi vincolanti per i paesi industrializzati, che scade il 31 dicembre: si tratta di prolungarne gli impegni. L'Unione europea si dice d'accordo. Ma serve una formula per associarvi gli Stati uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, e altre grandi economie come Canada e Giappone, che ne sono usciti. Invece Washington ha chiarito che non si unirà mai al gruppo di Kyoto, seguita da Ottawa e Tokyo.
Così molti a Doha stanno puntando il dito contro Usa, Canada e Giappone che hanno rifiutato impegni decisi sul taglio delle emissioni. Friends of the Earth International boccia per la verità anche l'Unione Europea e le sue proposte per il Kyoto 2: «Scatola vuota, un insulto. Provocherà altri anni di non azione». Kwesi Obeng, della rete africana «Campagna per chiedere Giustizia Climatica» ieri diceva: «Il negoziato è irrecuperabile. Chiediamo ai paesi di non firmare». Meglio un non accordo, un accordo al ribasso o un accordo che non sarà rispettato? La realtà è che nessun paese ha accettato di aumentare gli obiettivi di tagli alle proprie emissioni. Resta un preoccupante gap tra le emissioni attuali e la riduzione indispensabile a contenere il riscaldamento del pianeta entro i 2 gradi centigradi che il panel intergovernativo sul cambiamento del clima considera la soglia del disastro irreversibile per il genere umano.
Nessun accordo ieri sera neppure sul secondo punto sul tavolo a Doha, le «azioni cooperative a lungo termine», Lca. Né su un calendario per il negoziato «vero», quello sull'accordo globale nel 2015, di cui vanno definiti tempi e cornice. Al fondo, resta la questione dei soldi: i paesi ricchi non sembrano voler assumere impegni collettivi di finanziamento per permettere ai paesi in via di sviluppo di adattarsi ai cambiamenti climatici e di passare a un'economia «amica» del clima. Al vertice di Copenhagen nel 2009 i paesi sviluppati si impegnarono a mettere in un fondo 30 miliardi di dollari entro il 2012 e portare la somma a 100 miliardi di dollari l'anno fino al 2020. Alcuni paesi in via di sviluppo sono arrivati a Doha chiedendo che i paesi ricchi raddoppino (a 60 miliardi) il finanziamento nel breve termine: poco realistico, se si pensa che anche dei 30 miliardi promessi tre anni fa ne sono stati versati finora circa 2. Arriverà entro oggi qualche magnanima promessa a salvare la faccia del negoziato?
Le numerose organizzazioni popolari, contadine, della società civile, delle popolazioni indigene, e le ong presenti a Doha - che costituiscono l'informale movimento per la giustizia climatica - avevano inviato giorni fa una lettera aperta ai ministri e ai negoziatori: «Il mondo a Doha sta decidendo che controlli internazionali in materia di clima e quali meccanismi di finanziamento occorrerà mettere in opera da qui al 2020. I governi saranno condannati dai popoli e dalla storia se non agiranno da subito». Elencavano richieste precise in materia di impegni e di finanziamenti: un secondo periodo Kyoto che preveda da subito tagli delle emissioni del 40-50% per i paesi «sviluppati» rispetto al 1990 entro il 2020. Niente nuovi meccanismi di mercato: i paesi industrializzati devono ridurre le emissioni per davvero, in termini di uso di petrolio, gas e carbone, e non con scappatoie o commercio del carbonio. Chiedevano impegni finanziari precisi e scritti, non dichiarati nelle conferenze stampa, da parte dei paesi sviluppati, per le azioni di mitigazione e adattamento. Non pare che abbiano ottenuto risposte, dopo due settimane di negoziati in una cornice opulenta (il corrispondente di Al Jazeera trovava «esotica» l'area della raccolta differenziata nella sede della Conferenza: mai vista prima nell'Emirato).
«Anche Doha risulterà una kermesse di promesse», commentava ieri Sunita Narain, direttore del Centre for Science and Environment, autorevole organizzazione indiana da oltre venti anni impegnata sul tema dell'equità climatica: «Certo, almeno il prerequisito dell'equo accesso allo spazio climatico è stata al centro: i paesi in via di sviluppo hanno bisogno di tempo, tecnologie e denaro per la transizione verso un'economia a basse emissioni. Ma quanto agli impegni di riduzione delle emissioni da parte dei paesi sviluppati, sono insufficienti... Gli Stati uniti parlano del 17% di riduzione delle emissioni rispetto al 2005, cioè un misero 3% rispetto al 1990. È una beffa alla sopravvivenza planetaria».
Nel frattempo però sono sul tavolo diversi punti diciamo preliminari, ma decisivi. Uno riguarda un nuovo periodo del Protocollo di Kyoto, finora unico (anche se flebile) trattato sul clima con obblighi vincolanti per i paesi industrializzati, che scade il 31 dicembre: si tratta di prolungarne gli impegni. L'Unione europea si dice d'accordo. Ma serve una formula per associarvi gli Stati uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, e altre grandi economie come Canada e Giappone, che ne sono usciti. Invece Washington ha chiarito che non si unirà mai al gruppo di Kyoto, seguita da Ottawa e Tokyo.
Così molti a Doha stanno puntando il dito contro Usa, Canada e Giappone che hanno rifiutato impegni decisi sul taglio delle emissioni. Friends of the Earth International boccia per la verità anche l'Unione Europea e le sue proposte per il Kyoto 2: «Scatola vuota, un insulto. Provocherà altri anni di non azione». Kwesi Obeng, della rete africana «Campagna per chiedere Giustizia Climatica» ieri diceva: «Il negoziato è irrecuperabile. Chiediamo ai paesi di non firmare». Meglio un non accordo, un accordo al ribasso o un accordo che non sarà rispettato? La realtà è che nessun paese ha accettato di aumentare gli obiettivi di tagli alle proprie emissioni. Resta un preoccupante gap tra le emissioni attuali e la riduzione indispensabile a contenere il riscaldamento del pianeta entro i 2 gradi centigradi che il panel intergovernativo sul cambiamento del clima considera la soglia del disastro irreversibile per il genere umano.
Nessun accordo ieri sera neppure sul secondo punto sul tavolo a Doha, le «azioni cooperative a lungo termine», Lca. Né su un calendario per il negoziato «vero», quello sull'accordo globale nel 2015, di cui vanno definiti tempi e cornice. Al fondo, resta la questione dei soldi: i paesi ricchi non sembrano voler assumere impegni collettivi di finanziamento per permettere ai paesi in via di sviluppo di adattarsi ai cambiamenti climatici e di passare a un'economia «amica» del clima. Al vertice di Copenhagen nel 2009 i paesi sviluppati si impegnarono a mettere in un fondo 30 miliardi di dollari entro il 2012 e portare la somma a 100 miliardi di dollari l'anno fino al 2020. Alcuni paesi in via di sviluppo sono arrivati a Doha chiedendo che i paesi ricchi raddoppino (a 60 miliardi) il finanziamento nel breve termine: poco realistico, se si pensa che anche dei 30 miliardi promessi tre anni fa ne sono stati versati finora circa 2. Arriverà entro oggi qualche magnanima promessa a salvare la faccia del negoziato?
Le numerose organizzazioni popolari, contadine, della società civile, delle popolazioni indigene, e le ong presenti a Doha - che costituiscono l'informale movimento per la giustizia climatica - avevano inviato giorni fa una lettera aperta ai ministri e ai negoziatori: «Il mondo a Doha sta decidendo che controlli internazionali in materia di clima e quali meccanismi di finanziamento occorrerà mettere in opera da qui al 2020. I governi saranno condannati dai popoli e dalla storia se non agiranno da subito». Elencavano richieste precise in materia di impegni e di finanziamenti: un secondo periodo Kyoto che preveda da subito tagli delle emissioni del 40-50% per i paesi «sviluppati» rispetto al 1990 entro il 2020. Niente nuovi meccanismi di mercato: i paesi industrializzati devono ridurre le emissioni per davvero, in termini di uso di petrolio, gas e carbone, e non con scappatoie o commercio del carbonio. Chiedevano impegni finanziari precisi e scritti, non dichiarati nelle conferenze stampa, da parte dei paesi sviluppati, per le azioni di mitigazione e adattamento. Non pare che abbiano ottenuto risposte, dopo due settimane di negoziati in una cornice opulenta (il corrispondente di Al Jazeera trovava «esotica» l'area della raccolta differenziata nella sede della Conferenza: mai vista prima nell'Emirato).
«Anche Doha risulterà una kermesse di promesse», commentava ieri Sunita Narain, direttore del Centre for Science and Environment, autorevole organizzazione indiana da oltre venti anni impegnata sul tema dell'equità climatica: «Certo, almeno il prerequisito dell'equo accesso allo spazio climatico è stata al centro: i paesi in via di sviluppo hanno bisogno di tempo, tecnologie e denaro per la transizione verso un'economia a basse emissioni. Ma quanto agli impegni di riduzione delle emissioni da parte dei paesi sviluppati, sono insufficienti... Gli Stati uniti parlano del 17% di riduzione delle emissioni rispetto al 2005, cioè un misero 3% rispetto al 1990. È una beffa alla sopravvivenza planetaria».
Marinella Correggia e Paola Desai
Fonte: http://www.pane-rose.it
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