L’uomo di Verano volato tra le stelle: "Sono ancora astronauta, la Nasa mi ha offerto la guida di una stazione"
Monza, 1 dicembre 2013 - «Sognate cose impossibili, non perdete tempo con quelle possibili... e poi svegliatevi, datevi da fare con dedizione e tenacia perché anche i sogni impossibili ogni tanto si realizzano». Paolo Nespoli, 56 anni, lo ripete come un mantra agli studenti (e non solo) che incontra. Paracadutista incursore, ingegnere, maggiore dell’esercito, laureato, soprattutto astronauta.
Come chiarmarla?
«Paolo
può bastare. Sono cresciuto a Verano, il paese della mia famiglia
(padre bancario e madre casalinga): all’oratorio, con tutti i vantaggi e
gli svantaggi della vita di provincia. Dopo il liceo scientifico a
Desio, mi sono iscritto al Politecnico, ma non girava benissimo, non
andavo d’accordo con i miei genitori, non ingranava. Dopo un periodo di
riflessione, decisi di andare a militare di leva, chiesi di fare il
paracadutista: facevo già roccia in Grigna e sul Resegone, e
speleologia: insomma volevo cimentarmi».
A Pisa diventa istruttore dei parà, poi incursore nei reparti speciali.
«Andai
subito in Libano (dall’82 all’84) in missione di pace, era la prima
volta nel dopoguerra che il nostro esercito andava all’estero: fu
un’esperienza forte e formante, non facevo più la guardia a una bidone
vuoto, c’era la guerra vera. Al ritorno da questa esperienza forte ci fu
un momento di riflessione: avevo 26 anni, da 7 ormai ero nell’esercito,
avevo una carriera già consolidata».
Ma incontrò Oriana Fallaci, la grande giornalista...
«Mi
chiese: cosa vuoi fare da grande? E a me saltò fuori un’idea di quando
ero piccolo: volevo fare l’astronauta... Fu un azzardo: lasciavo
l’esercito e volare nello spazio era come vincere la Lotteria di
Capodanno. Avevo però due handicap: serviva una laurea tecnica,
conoscere benissimo l’inglese e avere un fisico normale. Io avevo solo
un fisico normale. A scuola avevo fatto francese e non mi ero mai
laureato».
Nespoli non si scoraggia.
«Il
miglior modo per non realizzare un sogno è... non provarci neppure. Mi
iscrissi a ingegneria spaziale al Politecnico di New York. Fu tosto, ma
nell’85 partii per l’America e per quattro anni la mia vita fu casa,
metropolitana e università. Ci davo dentro di brutto e un facoltà che
gli Americani fanno in 6 anni io la feci in 4».
La corsa allo spazio era solo all’inizio: viene rifiutato per tre volte ai bandi di concorso.
«Venni
però accettato, in Germania, come ingegnere addetto all’istruzione
degli astronauti. E nel ‘97 finalmente l’Esa, l’Agenzia Spaziale
Europea, mi prese e mi mandò a Houston, dove presi la qualifica di
astronauta. Mi misi in coda per un volo».
Dopo 8 anni la prima missione sullo Shuttle.
«Come coordinatore delle passeggiate spaziali».
Eppure dovette aspettare ancora.
«Dovetti
andare in Russia per conto dell’Esa, riqualificarmi dopo 10 anni di
Shuttle e imparare il russo. Nel 2010 ci hanno sparato con la Soyuz
sulla Stazione Spaziale Internazionale. Fu una missione complessa e
interessante, era come fare una tripla maratona: sullo Shuttle a fatica
puoi ignorare le peculiarità dello spazio, la vita come se non ci fosse
la forza di gravità. Su una stazione invece no, devi trasformarti in un
extraterrestre. Poi diventa piacevole, anche se per mesi vivi in un
ambiente minuscolo, prendi un sacco di radiazioni, i tuoi muscoli
impazziscono e le ossa si sciolgono. Ma guardare la Terra da lassù è una
cosa unica...»
Ora è finita?
«La Nasa ha
offerto la possibilità di darmi il comando di una stazione spaziale, ma
l’Italia continua a dire che non ci sono risorse per mandarmi. Sono
soddisfatto, mi sforzo di vedere il bicchiere mezzo pieno, specie se
penso al ragazzino di Verano che ero. E finché passo le visite mediche,
posso ancora volare».
Ha senso volare?
«Una
domanda legittima, perché è costoso e pericoloso. Ma dico sempre: nello
spazio si trovano condizioni irripetibili, la microgravità e la
posizione rispetto alla Terra consentono ricerche scientifiche
irripetibili. E poi come esseri umani siamo di natura curiosi,
esploratori e siamo disposti a rischiare la vita: c’è così tanto da
esplorare che ne vale la pena».
Roba da Star Trek...
«Ma
io preferivo film come Alien. Da bambino mi avevano intrigato le foto
che arrivavano dalla Luna, la jeep lunare: sognavo di fare derapate
sulla sabbia della Luna...
E gli extraterrestri?
«Non
ne ho mai avuto la prova, ma li avrei salutati volentieri se li avessi
incontrati. Non ho mai visto niente, ma questo non vuol dire che non ci
creda. Con tanti pianeti nell’universo mi dico: è mai possibile non ce
ne sia almeno uno simile alla Terra per condizioni di vita? Il problema
vero sono le distanze astronomiche... Per raggiungere Proxima Centauri,
la stella a noi più vicina, ci vorrebbero 162mila anni. Oggi noi non
possiamo riuscirci, ma chissà che qualcun altro non sia in grado di
venire da noi: però, se un extraterrestre ci sta guardando, cosa vede?
Come era Monza 23mila anni fa. In fondo però anche i telefonini di oggi
20 anni fa erano impensabili... E poi, crediamoci o no, prima o poi da
questo pianeta ce ne dovremo andare»
Andremo su altri pianeti?
«Marte oggi no, ma è una mèta possibile. E perché no, prima o poi, una colonia sulla Luna...»
La felicità per un astronauta?
«Quando
ero in orbita e facevo un esperimento complesso, se mi riusciva ero
contento e mi sentivo utile per me e per gli altri. E sono contento di
aver realizzato un sogno impossibile. Ma ancora non basta: vorrei
prendere il brevetto da pilota di elicottero, solo che non ho abbastanza
tempo...».
Mai trovato Dio nei suoi voli?
«Si
dice che lo spazio ti porta ad avvalorare e amplificare le tue
credenze, ti dà paradossalmente una prova. Io sono in una posizione
neutrale: cresciuto in una cultura cattolica, sono poi diventato
agnostico, ma mi rendo conto che quando sei “lassù” ci sono tante cose
che non conosciamo. Più conosco e vedo cose, anche se dovrei essere
legato alla scienza e alla tecnologia, in realtà più scopro che ci sono
tante cose che non so: boh... Dio esiste? Non lo so».
Dario Crippa
Fonte
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