Energia nucleare? No, grazie! - L’incidente di Three Mile Island
Il più
grave incidente nucleare nella storia degli Stati Uniti, 35 anni fa, che
nessuno capì per molte ore e che bloccò lo sviluppo delle centrali
americane per decenni
Nei cinema americani, negli ultimi giorni di marzo del 1979, era in programmazione un thriller di James Bridges, Sindrome cinese.
Racconta la storia di un giornalista televisivo che scopre un tentativo
di insabbiamento di gravi rischi per la sicurezza in un impianto
nucleare. Durante il film, uno scienziato descrive gli effetti
catastrofici di un incidente dicendo che «potrebbe rendere inabitabile
un’area grande come la Pennsylvania». Fu un film di un certo successo –
nel cast ci sono Jane Fonda, Michael Douglas e Jack Lemmon – che fu
nominato per diversi Oscar e, pochi giorni dopo la sua uscita, avvenne a
Three Mile Island il peggior incidente avvenuto nella storia
dell’energia nucleare civile prima di Chernobyl e Fukushima.
Al centro della storia
Il secondo reattore (“Unit 2″) dell’impianto nucleare di Three Mile
Island, una decina di chilometri a sud di Harrisburg, capitale della
Pennsylvania, era stato inaugurato il 19 settembre 1978. Alla cerimonia
aveva partecipato anche il vicesegretario per l’Energia John F. O’Leary,
un convinto sostenitore dell’energia nucleare nell’amministrazione
Carter, che dopo un discorso in cui definì il nuovo impianto «uno
scintillante successo» se ne partì dalla Pennsylvania con un fermacarte a
forma della centrale di Three Mile Island, che per molti mesi rimase
sulla sua scrivania di Washington. Quando cominciò a produrre
elettricità per la rete commerciale, il 30 dicembre 1978, l’impianto
sulle rive del fiume Susquehanna era il 72esimo reattore per la
produzione di energia elettrica ad entrare in funzione negli Stati
Uniti.
Tre mesi dopo successe qualcosa che fece scomparire il fermacarte
dalla scrivania di O’Leary, già importante dirigente dell’Atomic Energy
Commission – e diede un durissimo colpo alla diffusione dell’energia
nucleare negli Stati Uniti.
Al centro della
storia c’è il reattore ad acqua ad alta pressione dell’Unità 2 – una
sorta di idolo tecnologico moderno, che incute insieme soggezione per la
sua complessità e paura per la sua potenza. È un cilindro di acciaio
costruito dalla Babcock & Wilcox, con pareti di metallo spesse tra i
venti e i trenta centimetri, pesante quattrocento tonnellate, alto
dodici metri e largo cinque. Al suo interno c’è il nocciolo: l’uranio è
in piccole palline collocate in barre circolari di una lega speciale a
base di zirconio – in un reattore come quello di Three Mile Island ce ne
sono circa quarantamila – inserite verticalmente nel reattore e
concentrate in uno spazio di circa quattro metri per quattro.
Nel nocciolo avviene un procedimento fisico che l’uomo ha scoperto e
cominciato a sfruttare da meno di cento anni: la fissione nucleare. Un
elemento particolarmente pesante, l’uranio, si divide in due nuclei più
leggeri liberando energia. Nel processo di fissione di un atomo di
uranio vengono liberati anche un piccolo numero di neutroni, uno o due,
che in particolari circostanze possono essere utilizzati per “rompere”
altri atomi di uranio. Questo processo è chiamato “reazione a catena” e,
quando un reattore ha abbastanza uranio al suo interno da sostenerla,
si dice che “diventa critico”. L’unità 2 di Three Mile Island divenne
critica esattamente un anno prima dell’incidente, anche se cominciò la
produzione di elettricità per uso commerciale alcuni mesi più tardi.
I neutroni emessi durante la fissione sono sono troppo veloci, e per
innescare altre fissioni hanno bisogno di essere rallentati da un
“moderatore”. Per farlo si utilizzano diversi materiali, solitamente
grafite o, nel caso del reattore di Three Mile Island, acqua distillata
con una piccola aggiunta di acido borico. Questa scorre attraverso il
reattore a circa trecento gradi e, perché non si trasformi in vapore,
deve essere tenuta ad altissima pressione. Il moderatore si riscalda
all’interno del reattore, assorbendo il calore generato dalla fissione
nucleare. Al di fuori, l’acqua ad alta pressione cede calore al
refrigerante, poi rientra nel reattore in un sistema a circuito chiuso
azionato da quattro pompe, ciascuna così potente da aver bisogno di
tanta elettricità quanto una piccola cittadina.
Nel reattore come quello al centro della nostra storia, sia il
refrigerante che il moderatore sono costituite da acqua. Il refrigerante
assorbe il calore del moderatore e circola in un circuito separato, e –
con qualche complicazione che qui non ci interessa – muove le grandi
turbine che generano elettricità.
Intorno al reattore, chilometri e chilometri di tubi e centinaia di
chilometri di cavi elettrici lo fanno funzionare e alimentano una lunga
serie di sistemi di controllo. Nelle prime ore del 28 marzo 1979, il
reattore nucleare dell’Unità 2 stava lavorando in modalità automatica al
97 per cento della sua capacità. Il vicino reattore gemello, l’Unità 1,
era spento da un mese e mezzo per la sostituzione del combustibile
nucleare e, dopo una serie di test di controllo, sarebbe stato riacceso
qualche tempo dopo.
L’incidente
Dalle undici di sera del 27 marzo 1978, nella stanza di controllo
dell’Unità 2 di Three Mile Island c’erano Craig Faust e Edward
Frederick, entrambi con un diploma di scuola superiore e con esperienza
sui sottomarini nucleari della Marina americana. La stanza di controllo è
una grande sala con centinaia di indicatori su decine di pannelli, in
cui le ore passavano solitamente tranquille. Un interfono che restituiva
voci gracchianti e distorte metteva in comunicazione i tecnici con
l’Unità 1 e con il mondo esterno.
Il responsabile del turno di notte, che sarebbe finito alle sette del
mattino, era William Zewe, che aveva un curriculum simile a quello di
Faust e Frederick e stava nel suo ufficio a fianco della stanza di
controllo, sommerso dalle carte. La squadra di Zewe era composta da
sedici persone, il personale standard per il funzionamento quotidiano di
un reattore di quel tipo. In una struttura grande come un centro
commerciale – come l’Unità 2 – l’impressione era che la centrale
funzionasse da sola.
Due tecnici addetti alle riparazioni si trovavano nei sotterranei
per un intervento di ordinaria manutenzione: un piccolo tubo
nell’impianto di raffreddamento secondario si era otturato. Nonostante
oltre dieci ore di lavoro, però, l’inconveniente non era ancora stato
risolto, e il caposquadra Frederick Scheimann scese poco prima delle 4
del mattino a controllare la situazione. Era appena salito sopra una
conduttura quando cominciò a sentire, raccontò, «forti rumori come
quelli di un tuono, come se ci fosse qualche treno merci». Un
altoparlante annunciò: «Problema alla turbina, problema al reattore».
Era la voce di Zewe. Scheimann si precipitò nella sala di controllo,
dove pulsavano da pochi istanti decine di luci.
Un errore umano o dell’impianto elettrico – non si è mai capito con
certezza – aveva accidentalmente interrotto il funzionamento di una
pompa e quindi il flusso d’acqua nel reattore, causando un
surriscaldamento del refrigerante principale. Gli impianti automatici se
ne erano accorti e avevano attivato l’immediato spegnimento della
turbina e del reattore nucleare dell’Unità 2, insieme a una complessa
serie di impianti automatici di emergenza. Circa un secondo dopo, tre
pompe d’acqua di emergenza entrarono in funzione per compensare
l’interruzione del flusso, come previsto dai progettisti dell’impianto.
Trentasette secondi dopo le 4 del mattino di quel 28 marzo, qualcosa
andò storto.
Una catena di errori
Nel reattore, la brevissima interruzione fu sufficiente a causare uno
sbalzo nella pressione dell’acqua presente all’interno. Una valvola di
sfogo si aprì per eliminare la pressione in eccesso, ma rimase bloccata
in posizione aperta: di conseguenza, l’acqua del reattore prese a uscire
al ritmo di circa 800 litri al minuto e a scaricarsi in un serbatoio.
Avrebbe continuato a farlo per oltre due ore, invece dei dieci secondi
previsti dai progettisti. Incidentalmente, anche le tre pompe di
emergenza avevano un problema: due delle valvole che permettevano
all’acqua di raggiungere parti del sistema di raffreddamento principale
erano rimaste chiuse, forse durante alcuni interventi di manutenzione
nei giorni precedenti. Anche le pompe di emergenza, insomma, non furono
completamente efficaci.
Ma una centrale nucleare tende a non lesinare nei sistemi di
sicurezza, almeno sulla carta, e dopo due minuti dall’inizio
dell’incidente entrarono in funzione altre due pompe di un sistema ad
alta pressione che avrebbe potuto compensare l’acqua che si continuava a
perdere dal reattore attraverso la valvola bloccata, mantenendo il
nocciolo adeguatamente avvolto nell’acqua e quindi raffreddato. Gli
impianti automatici stavano facendo il loro lavoro per limitare le
conseguenze.
Il personale della centrale decise invece di spegnere le due pompe
aggiuntive. Non solo, ma con un’altra mossa che aggravò la situazione
decisero anche di aprire un sistema di scolo per togliere altra acqua
dal reattore. Letta in una ricostruzione lineare e posteriore degli
eventi, queste azioni sembrano pure mosse suicide, ma in realtà il
personale stava cercando di gestire al meglio la situazione in base alla
propria limitata esperienza.
Quello che era successo – e che fu decisivo nel rendere l’incidente,
di per sé non troppo grave, il più grave nella storia del nucleare
civile fino ad allora – era che la strumentazione della sala di
controllo era stata letta erroneamente e i tecnici avevano capito che
nel reattore ci fosse troppa acqua di raffreddamento e non troppo poca.
Tra gli indicatori non ce n’era uno unico e chiaro della quantità di
acqua di raffreddamento nel reattore: il personale era stato istruito a
stimarla da un altro indicatore, quello che monitorava la quantità di
acqua nel pressurizzatore – un serbatoio separato e che era collegato
con il sistema di raffreddamento primario. Se il pressurizzatore era
pieno, avevano imparato i tecnici, anche il reattore lo era.
L’unico particolare che poteva far loro pensare a una lettura diversa
della situazione era il termostato della valvola bloccata, che
continuava a segnalare una temperatura decine di gradi superiori alla
norma. Ma un altro strumento diceva che alla valvola era stato inviato
da tempo il comando di spegnersi, e Zewe decise di ignorare
quell’indicazione. Il serbatoio dove si raccoglieva l’acqua che
fuoriusciva dalla valvola bloccata si riempì intorno alle 4.20; l’acqua
ruppe il tappo e cominciò ad allagare il pavimento della stanza del
reattore, ma quando entrarono in funzione le pompe per drenare
quell’acqua tutti i tecnici presenti furono d’accordo nel credere che si
trattasse di un errore della strumentazione e le fecero spegnere.
Nessuno, tra il personale presente a Three Mile Island quel giorno,
era un ingegnere nucleare – se è per questo, nessuno era neppure
diplomato al college. La Nuclear Regulatory Commission, che nel 1975
aveva sostituito il precedente organo di controllo del nucleare
americano, l’Atomic Energy Commission, richiedeva soltanto che il
personale avesse frequentato il corso formazione di un anno organizzato
dalle società stesse che gestivano le centrali – nel caso di Three Mile
Island, la Metropolitan Edison – che si concentrava soprattutto
sull’ordinaria amministrazione. Nessuno aveva le competenze necessarie a
gestire complicate e rischiose situazioni di emergenza.
Nelle prime ore del mattino del 28 marzo, la valvola rimasta bloccata
aperta continuò a far defluire centinaia e centinaia di litri d’acqua
dal reattore. La temperatura nell’edificio del reattore salì dai circa
cinquanta gradi usuali a oltre 75, così come fece la pressione
atmosferica. La squadra di Zewe, tenendo d’occhio solo la situazione nel
pressurizzatore e ingannata dalla strumentazione, smontò ancora
all’oscuro di questo fatto cruciale, che venne scoperto e risolto solo
per un’intuizione dal responsabile del turno successivo Brian Mehler.
Mehler era arrivato sulla scena verso le sei del mattino e, dopo una
ventina di minuti, aveva preso la prima decisione giusta della giornata:
mandare un nuovo comando di chiusura alla valvola, perché la sua
temperatura era troppo alta. Il deflusso di acqua dal reattore venne
sistemato solo alle 6.22 del mattino.
Nella sala di controllo, a quell’ora, c’erano già parecchi tecnici
della centrale. Erano cominciate le telefonate tra i responsabili della
centrale e gli alti dirigenti della Metropolitan Edison. Tutti cercavano
di capire che cosa stesse succedendo nella stanza del reattore, il
centro di tutta la storia, su cui si potevano avere informazioni solo
attraverso gli strumenti e dove nessun essere umano sarebbe entrato fino
a più di un anno dopo.
Nel grande cilindro di acciaio del reattore, rimasto privo di un
adeguato raffreddamento, era cominciata la fusione del nocciolo. L’acqua
aveva continuato a perdere gradualmente pressione e si era trasformata
in vapore rovente, che avvolse le barre di uranio e rese molto più
difficile il raffreddamento per le ore successive. Molti sistemi di
controllo e di emergenza, descrissero i testimoni, sembrarono non
funzionare o funzionare male proprio nel momento del bisogno. Alle 7.24
del mattino, poco dopo l’arrivo del direttore dell’impianto Gary Miller,
i tecnici dovettero dichiarare la prima “emergenza generale” nella
quasi trentennale storia del nucleare civile americano. Provarono a
chiamare subito la Nuclear Regulatory Commission, ma a quell’ora del
mattino negli uffici di Philadelphia non c’era nessuno, e dovettero
lasciare un messaggio nella segreteria telefonica.
Il surriscaldamento delle barre di uranio, che dopo circa un’ora
dall’inizio dell’incidente erano per metà scoperte, portò al loro
scioglimento e al rilascio di grandi quantità di materiale radioattivo.
Circa un terzo del nocciolo, venne stimato successivamente, si era
letteralmente sciolto. Migliaia di litri di acqua provenienti dal
reattore vennero pompati “per errore” – il personale disse di non
essersi reso conto della contaminazione – in un altro edificio meno
sicuro rispetto a quello principale.
Di tutto questo, i tecnici della sala di controllo non erano ancora a
conoscenza nel pomeriggio del 28 marzo, oltre dieci ore dopo l’inizio
dell’incidente. Presero alcune decisioni per cercare di riportare la
pressione del reattore a livelli normali, ma senza aver capito bene che
cosa fosse successo fino a quel momento. I tecnici nella sala di
controllo e gli ingegneri venuti ad aiutarli agirono per diverso tempo
senza una strategia precisa e provando diverse opzioni perché tutte le
altre si erano esaurite. Il raffreddamento forzato del reattore venne
ristabilito solo intorno alle otto di sera del 28 marzo, dopo molte ore
di tentativi. Sarebbe andato avanti per diverse settimane.
Un brusco risveglio
Passarono due giorni e nessuno sembrava essersi reso conto, né
all’impianto né alla NRC, della gravità dell’incidente. Poi,
rapidamente, la situazione precipitò. Il 30 marzo arrivarono i risultati
delle analisi di un campione di un centinaio di grammi d’acqua presi
dall’edificio del reattore, che mostrarono livelli di radiazione
spaventosi. L’idea che il reattore fosse rimasto stabile, o al massimo
una barra di uranio su cento avesse subito qualche “crepa” – come
descrisse la situazione il presidente della NRC ad alcuni membri del
Congresso il 29 marzo – doveva essere scartata per affrontare la
rischiosa realtà: che parte del reattore si fosse danneggiata gravemente
e che tenerlo sotto controllo sarebbe stato tutt’altro che scontato.
Fino ad allora, la possibilità di una fusione parziale del
nocciolo sembrava un’ipotesi di fantascienza, il risultato quasi
impossibile di una catena di eventi statisticamente improbabili. Ma i
dati mettevano davanti solo una possibile descrizione di che cosa fosse
successo dentro il grosso idolo di metallo.
Da Three Mile Island arrivavano altre cattive notizie: c’erano state
fuoriuscite improvvise di gas radioattivi dall’Unità 2 e il vento le
stava portando verso i paesi vicini alla centrale. I tecnici della NRC
presero ad analizzare nuovamente i dati in loro possesso e conclusero
che nella parte alta del reattore, probabilmente, si era formata
un’inattesa bolla di idrogeno, che si stava lentamente gonfiando. Per
diverse ore, durante le quali ci furono consultazioni frenetiche con i
maggiori esperti del paese in materia di energia nucleare, nessuno seppe
dire se ci sarebbe stato ossigeno sufficiente a scatenare un incendio o
un’esplosione nel reattore, potenzialmente devastante.
Le autorità statunitensi e della Pennsylvania cominciarono a
preparare piani di evacuazione e dissero alla popolazione che quella
evacuazione si sarebbe potuta rendere necessaria. Centoquarantamila
persone abbandonarono le loro case nel fine settimana del 31 marzo e
primo aprile. Parte della durevole influenza che l’incidente di Three
Mile Island ebbe sull’opinione pubblica americana fu dovuta anche agli
annunci discordanti delle autorità, che cominciarono con il minimizzare
l’incidente e poco più tardi – come fece il governatore della
Pennsylvania Richard Thornburgh la sera del 30 marzo – invitarono madri
incinte e bambini in età prescolare a lasciare la zona.
Ma la sera del primo aprile l’allarme causato dall’idrogeno sembrò
rientrare. Nuovi calcoli e analisi tecniche mostrarono che non solo non
c’era ossigeno sufficiente a scatenare un’esplosione, ma l’idrogeno
stesso poteva essere rimosso con relativa facilità. Il presidente Carter
in persona – un ingegnere nucleare di formazione – andò in visita a
Three Mile Island cinque giorni dopo l’incidente, il che contribuì a
tranquillizzare la situazione. Ci volle ancora quasi un mese, fino al 27
aprile, prima che il reattore fosse pienamente sotto il controllo dei
tecnici e che potesse essere avviato uno spegnimento controllato. Il
reattore dell’Unità 2 non è stato mai più riacceso, mentre il reattore
dell’Unità 1 riprese le operazioni terminati i test ed è tuttora attivo.
Le conseguenze
Secondo le prime indagini successive, non venne dispersa nell’ambiente
una quantità di materiale radioattivo tale da destare preoccupazione.
L’interno dell’edificio di contenimento del reattore e un’altra
struttura vicina, però, erano allagati con circa quattromila metri cubi
d’acqua altamente radioattiva. Quello che distingue l’incidente di Three
Mile Island dai due disastri successivi di Chernobyl e di Fukushima è
che, a differenza degli ultimi due casi, l’edificio che contiene il
reattore non venne danneggiato, e questo permise di mantenere
all’interno quasi tutte le radiazioni.
L’opinione pubblica degli Stati Uniti reagì all’incidente in modo
estremamente negativo per l’industria nucleare: per molti anni non volle
saperne di costruire nuove centrali e nessuna venne autorizzata tra
l’inizio del 1979 e il 2012, mentre diverse in costruzione al momento
dell’incidente vennero bloccate. Molti sottolinearono che l’incidente di
Three Mile Island era stato una conseguenza di scarsa preparazione
tecnica, errori umani e cattiva regolamentazione del settore. La
sicurezza degli impianti era lasciata largamente all’iniziativa delle
società di gestione, mentre le autorità di controllo si erano dimostrate
molto spesso inclini a minimizzare i rischi – in modo non troppo
differente da quanto è stato rilevato di recente per il settore nucleare in India.
Un rapporto della Union of Concerned Scientists pubblicato il 26
gennaio 1979 raccomandava la chiusura di 16 delle circa settanta
centrali nucleari americane per una serie di lavori di ristrutturazione:
tra le sedici c’era anche il reattore 2 della centrale di Three Mile
Island. Nelle indagini successive venne fuori che modifiche all’impianto
in costruzione erano state richieste, ma non messe in pratica, fin
dalla fine degli anni Sessanta.
Nel 1981, introducendo una dettagliata ricostruzione dell’incidente per il New Yorker,
lo scienziato Daniel Ford scrisse: «Viste le scorrettezze regolamentari
prima dell’incidente e i numerosi avvertimenti sui punti deboli nella
sicurezza degli impianti, a lungo disponibili per le autorità federali,
resta qualche dubbio sul fatto che l’episodio a Three Mile Island debba,
in senso stretto, essere chiamato davvero “incidente”.»
Le operazioni di bonifica della struttura cominciarono subito e sono
finite ufficialmente nel 1993. Tutto il carburante nucleare nel reattore
è stato rimosso e portato in un deposito federale in Idaho. Le
operazioni di bonifica sono state lunghe e costosissime. Peter Bradford,
un ex membro della Commissione di Controllo sul Nucleare statunitense,
disse al New York Times: «Il durevole insegnamento di Three
Mile Island a Wall Street è stato che un gruppo di società che
gestiscono reattori autorizzati, né migliori né peggiori di altri,
possono trasformare un patrimonio di 2 miliardi di dollari in un lavoro
di bonifica da 1 miliardo in più o meno novanta minuti».
Ufficialmente, nessun essere umano si è fatto del male nell’incidente
del 28 marzo 1979. Nel 2008, l’istituto della sanità americano (NHI) concluse,
al termine di uno studio sull’incidenza dei tumori alla tiroide nelle
aree vicine alla centrale, che in due contee adiacenti a quelle della
centrale si è osservato un aumento dei casi tumorali a partire
rispettivamente dal 1990 e dal 1995, oltre dieci anni dopo l’incidente.
In alcuni anni, nota lo studio, c’è stata una crescita del 50 per cento
rispetto alle attese, ma «questi risultati, ad ogni modo, non forniscono
un nesso causale con l’incidente di TMI.»
Giovanni Zagni
Fonte
No comments:
Post a Comment
Note: Only a member of this blog may post a comment.