Come descritto nell’apposita sezione di MeteoWeb,
le nostre coste sono state colpite da tsunami sin dalla remota
antichità. La storia e la statistica ci indicano che nel nostro paese,
in media, negli ultimi duemila anni si sono verificati 3 maremoti di
varia intensità ogni secolo. Il maremoto o tsunami più famoso rimane
probabilmente quello che colpì lo Stretto di Messina nel 1908 e
di cui recentemente è stata ipotizzata un’origine di tipo gravitativo.
Esiste però un’area ripetutamente colpita nel corso dei secoli e che, a
buona ragione, può essere definita “la baia degli tsunami”: è l’ampio golfo intorno alla città di Augusta,
nella Sicilia orientale, a nord di Siracusa, tra Capo S. Croce e Capo
S. Panagia, lungo circa 25 km e largo 15 km. Recenti studi eseguiti
nell’ultimo lustro da un team di ricercatori dell’INGV (tra cui il dott.
De Martini e la dott.ssa Smedile) confermano questa ipotesi che ha
ottenuto grande risalto anche nelle più prestigiose riviste scientifiche
a livello mondiale. Il geologo Giampiero Petrucci, da tempo nostro valido collaboratore, ne parla proprio con la dott.ssa Alessandra Smedile,
ricercatrice dell’INGV ed esperta in stratigrafia e paleontologia per
la valutazione di eventi catastrofici quali terremoti e tsunami.
Dott.ssa Smedile, cosa si intende esattamente per paleotsunami?
Uno tsunami avvenuto nel passato, vicino o remoto, di cui non sempre si hanno notizie storiche e bibliografiche
Quali sono le ricerche da fare e gli indizi da cercare per la scoperta e la verifica di un paleotsunami?
Certamente si tratta di indagini
multidisciplinari basate sull’integrazione di storia e scienza, non solo
geologia ma talora anche archeologia e paleoecologia. Fondamentalmente
le ricerche possono essere divise in tre fasi. Nella prima si
individuano, tramite foto aeree e satellitari unite ad un rilievo di
superficie, le aree in cui è più probabile che i depositi lasciati dagli
tsunami del passato si siano preservati: si tratta principalmente di
lagune e piane costiere cioè aree di deposizione continentale
caratterizzate da sedimenti fini ed in cui quindi sia più facile
evidenziare sedimenti più grossolani di origine marina. Si tende
inoltre, in maniera conservativa, ad escludere i primi 200 metri dalla
linea di costa attuale, in modo da ridurre l’influenza dei processi di
erosione e la possibile presenza di depositi legati alle mareggiate. In
mare invece, tramite la sismica a riflessione e l’analisi batimetrica
dei fondali, si individua una zona della piattaforma continentale in cui
la deposizione progressiva dei sedimenti è presumibilmente avvenuta con
continuità e tranquillità nel corso degli ultimi millenni, lasciando in
questo modo nella stratigrafia tracce abbastanza evidenti di fenomeni
particolari ed inconsueti come appunto uno tsunami
E le fasi seguenti?
Dapprima si eseguono diversi carotaggi
nelle aree individuate. Poi, sui reperti così ottenuti, si sviluppano
numerose analisi di laboratorio di vario tipo tra cui risultano
fondamentali i raggi-x, lo studio delle proprietà fisiche dei sedimenti,
le analisi sedimentologiche, micropaleontologiche ed infine le
datazioni radiometriche. Quest’ultimo tipo di analisi è fondamentale per
capire l’età dei sedimenti che abbiamo carotato e quindi l’eventuale
correlazione di un deposito di paleotsunami ad un evento storico.
Indagini dunque lunghe e dettagliate, fortemente interdisciplinari. Il
risultato finale però a volte è straordinario: la scoperta delle
tsunamiti
Ecco, le tsunamiti. Recentemente
questo termine è entrato in vigore anche a livello internazionale. Cosa
si intende esattamente con questa parola?
Si tratta
letteralmente di depositi lasciati dal passaggio di onde di tsunami nel
record geologico e possono essere di due tipologie: megablocchi di
roccia oppure sedimenti. In entrambi i casi si tratta di depositi
strappati dal fondo del mare e trasportati a terra e che quindi
testimoniano un brusco cambiamento granulometrico ed ambientale. Nel
caso di una tsunamite data da sedimenti sciolti, si tratta generalmente
di un livello sabbioso, spesso al massimo 25 cm, all’interno di una
successione fatta da sedimenti fini quali per esempio argille e silt.
Tali livelli tendono ad essere massivi, cioè senza un’organizzazione
interna, quindi livelli ad alta energia intercalati a livelli a bassa
energia. Tali orizzonti sabbiosi sono sovente discontinui ed il loro
spessore tende a diminuire mano a mano che ci si allontana dalla costa.
Le tsunamiti contengono spesso frammenti di conchiglie, bioclasti, e
microfauna marina
Può spiegare meglio la presenza
di microfauna? Quali sono le specie principali che si rinvengono in una
tsunamite? Sono visibili ad occhio nudo?
Per microfauna si intendono piccoli
organismi, come i foraminiferi, gli ostracodi o le diatomee, grandi
qualche mm e quindi non visibili ad occhio nudo. Si tratta di organismi
che per le loro piccole dimensioni e poiché secernono un guscio
(carbonatico per foraminiferi ed ostracodi, siliceo per le diatomee),
fossilizzano e sono facilmente riconoscibili nel record geologico. Non
esistono delle microfaune tipiche delle tsunamiti ma data la loro ampia
distribuzione all’interno degli ambienti acquatici, è possibile
ricostruire l’evoluzione dell’ambiente nei sedimenti e quindi capire
quando per esempio vi è stata una ingressione marina in una piana
costiera.
Le tsunamiti sono dunque la
“pistola fumante”, la prova-regina, di un’ingressione marina. Ma anche
una forte mareggiata lascia depositi similari. A parte la distanza
dall’attuale linea di costa (uno tsunami ha un’ingressione maggiore),
come si differenzia una vera tsunamite da un sedimento legato ad una
semplice mareggiata?
Sono diversi gli elementi che possono
contraddistinguere una tsunamite da un deposito di tempesta. In primis
le tsunamiti, come avevo già detto prima, sono dei depositi massivi, non
mostrano quasi mai stratificazione, se non una debole laminazione alla
base. Possono inoltre contenere piccole sfere di argilla spesse pochi mm
chiamate rip-up clasts, strappate dai livelli sottostanti dal
passaggio dell’onda. A differenza dei depositi di tempesta, inoltre, le
tsunamiti possono mostrare bi-direzionalità nella disposizione dei
granuli per effetto dell’onda che avanza e arretra. Inoltre, i gusci dei
microfossili marini si presentano ben preservati, al massimo scheggiati
a differenza di quelli presenti in un deposito di tempesta il cui
guscio è spesso abraso e levigato per effetto del continuo risciacquo
dell’onda.
Teoricamente, da profani, si può pensare che le tsunamiti si trovino soltanto nell’entroterra, onshore
come si dice in inglese, dove ovviamente sono state trasportate
dall’onda. Ciò è stato ampiamente documentato anche nell’ultimo tsunami
giapponese del marzo 2011. Si trovano invece anche da altre parti e
forse sono ancora più importanti. Vero?
Sì, si trovano anche offshore,
ovvero in mare, anche a qualche km di distanza dall’attuale linea di
costa. Sono importanti perché sul fondo del mare c’è continua
sedimentazione e la stratigrafia viene meglio conservata rispetto alle
coste dove invece l’erosione subaerea può cancellare tracce
significative, soprattutto nel corso dei millenni. A differenza di
quanto accade a terra, nell’offshore si osservano solo i
depositi legati all’onda di ritorno. Nelle aree però immediatamente
prospicienti alla costa questi depositi hanno meno probabilità di essere
preservati perché cancellati dallo stesso moto ondoso durante le
mareggiate. L’onda di ritorno dello tsunami, oltre a trasportare tutto
quello che aveva preso in carico a terra, trasporta la microfauna che
vive in mare a profondità maggiori rispetto a quella in cui generalmente
vive. Questo è quanto abbiamo osservato nella Baia di Augusta dove per
ben dodici volte negli ultimi 4000 anni la microfauna che normalmente
vive sulle praterie di posidonie era stata trasportata insieme alla
stessa Posidonia a profondità maggiori.
La vostra “caccia” appunto s’è
concentrata nella baia di Augusta, in particolare nella zona
dell’ospedale e della riserva di Priolo. Quanti paleotsunami avete
individuato?
E’ necessaria una premessa. Una volta
individuati e datati i livelli di tsunamiti, si deve necessariamente
confrontare i risultati con i dati storici ed i riferimenti
bibliografici in modo da associare un livello ad un evento ben preciso. A
terra sono state identificate e datate sette tsunamiti a differenza
dell’offshore dove ne sono state individuate ben dodici. Tra
terra e mare noi abbiamo identificato con certezza ben cinque livelli di
tsunamiti corrispondenti ad altrettanti tsunami: tre di natura
“regionale” e ben noti (ovvero quelli relativi agli anni 1169, 1693 e
1908), due di genesi molto più lontana sia nel tempo che nello spazio
(Creta 365 – qui l’approfondimento – e Santorini 1600 a.C. – qui tutti i dettagli dell’evento
– ). La sorpresa è che abbiamo individuato altri sette livelli di
tsunamiti cui però al momento non siamo in grado di associare alcun
altro evento storico: anche perché si tratta di fenomeni avvenuti in
epoche molto remote e di cui non si ha nessuna memoria. Il più recente
infatti è databile tra il 600 e l’800 d.C. (una scoperta veramente di
grande rilievo, n.d.r.).
Considerando proprio
quest’ultimo argomento, esiste un “tempo di ritorno” per gli tsunami? La
baia di Augusta è ancora a rischio?
La risposta è sì, ad entrambe le
domande. Il tempo di ritorno, così come avviene per i terremoti, può
essere calcolato anche per gli tsunami, sia pure con un’incertezza
maggiore data la non sempre vasta documentazione al riguardo. Per la
baia di Augusta, ad esempio, è stato valutato un tempo di ritorno di
circa 250 anni, tenendo in considerazione che secondo il catalogo
storico degli tsunami vi sono stati quattro grossi eventi nell’ultimo
millennio. Si deve poi considerare che oggi lungo le coste della baia
sono presenti molte importanti infrastrutture: il porto, gli impianti
petrolchimici, la base NATO. Infine non si deve dimenticare che, a
seguito di un terremoto con epicentro nei pressi di Castelluccio, il 13
dicembre 1990 Augusta fu entità interessata da alcune onde anomale di
lieve entità che comunque invasero il lungomare di Granatello e ruppero
alcuni ormeggi di barche nel porto. E stiamo parlando di soli 22 anni
fa, non del 1600 a.C.
La vostra ricerca dimostra
quanto sia importante studiare il passato per salvaguardare il nostro
futuro. Ma in Italia il rischio-tsunami forse viene sottovalutato,
almeno dall’opinione pubblica. Lei cosa ne pensa? Cosa si può fare per
migliorare la sicurezza delle nostre coste riguardo ai maremoti?
Le nostre coste sono densamente abitate e
quindi altamente esposte al rischio tsunami non solo per effetto dei
terremoti italiani ma anche perché soggette a possibili onde di tsunami
generatisi lungo l’arco ellenico o le coste nord-africane. Inoltre, non
vi sono solo gli tsunami da terremoto ma anche le grosse frane
sottomarine che possono avvenire lungo i fianchi dei vulcani, innescando
onde anomale come quella che, senza andare troppo lontano nel tempo, ha
interessato l’isola di Stromboli nel dicembre 2002. Attualmente sono in
fase di studio dei sistemi di allertamento per il Mar Mediterraneo ma
sicuramente l’informazione e la preparazione della popolazione sarà
sempre il modo migliore per difenderci da questo tipo di fenomeno.
L’ultima domanda. Dove può
essere indirizzata la prossima ricerca? Esiste un’altra “baia degli
tsunami” in qualche altra parte d’Italia?
Come ho già detto prima, un po’ tutte le
coste italiane sono soggette a rischio tsunami, anche se alcune zone lo
sono più di altre. Quindi si possono trovare senz’altro altre “baie
degli tsunami” lungo le nostre coste, anche se la baia di Augusta resta
comunque uno dei siti più favorevoli per questo tipo di studio dato il
suo ricco record storico. Al momento sicuramente uno dei problemi più
grossi è quello di trovare fondi necessari per questo tipo di studi e
soprattutto la mancanza di una programmazione su orizzonti temporali
lunghi: quanto da noi trovato ha richiesto ben 5 anni di studi e
ricerche.
Fonte: http://www.meteoweb.eu
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