Sarà solo un tragico caso, ma l’esplosione dell’epidemia di Ebola
coincide con una serie di ricerche militari. Ricerche in atto negli Usa, in Canada e in Russia,
dirette a potenziare il virus per studiare il modo migliore per
combatterlo
Dettagli tecnici? Top secret. Ma, nei laboratori, Ebola è
stato quasi certamente reso trasmissibile per via aerea e più resistente
alle cure, in modo da mettere a punto i farmaci più idonei a
contrastarne gli effetti. E il terribile sospetto, scrive Marco
Mostallino su “Lettera 43”, è che la sua recente, devastante diffusione sia in qualche modo dovuta a una falla nei sistemi di sicurezza
di quei laboratori ad alto rischio. Un terribile sospetto: il virus,
negli ultimi mesi, ha infettato in Africa occidentale circa 8.000
persone, provocando il decesso di oltre 3.800 pazienti, con un tasso di
mortalità che supera il 46% dei malati. «Il sospetto che siamo alle
prese con un super-Ebola, creato dai ricercatori e molto più potente
dell’originale, è suffragato dal confronto con il totale di circa 2.500
persone uccise dal virus fino all’anno scorso dal 1976, anno della sua
scoperta». Ci sono tre precedenti: nel 1976 in Inghilterra e nel 2004
negli Usa (con due ricercatori contagiati e poi guariti) e, sempre nel 2004, in Russia, quando uno scienziato perse la vita dopo essere stato infettato.
Da tempo gli Stati Uniti hanno in corso studi, coordinati dalla
difesa e diretti a esplorare tutte le possibilità evolutive della
malattia, per anticiparle attraverso la coltura di un super-virus: la
prova, scrive Mostallino, si trova in un documento del
ministero
della salute americano, redatto e diffuso dall’ufficio incaricato di
affrontare le emergenze sanitarie. «Si tratta di un protocollo di sicurezza
dall’applicazione obbligatoria per tutte quelle istituzioni sanitarie
(pubbliche e private) impegnate nella cosiddetta “dual research”, ovvero
la ricerca definita “a doppio taglio” perché, spiega il Dipartimento
della Salute Usa,
può generare risultati “benefici o estremamente dannosi”, secondo
l’utilizzo che se ne fa e la maniera di maneggiare le fonti di un
possibile contagio». La ragione di queste «prassi da apprendisti
stregoni», e di tutte le misure di sicurezza
che le accompagnano, secondo “Lettera 43” risiede nel timore degli
Stati Uniti di subire attacchi batteriologici a opera di gruppi
terroristici appoggiati da scienziati senza scrupoli. Di qui la
decisione di «potenziare le capacità di contagio e la resistenza dei
virus più pericolosi, in modo da essere pronti a fronteggiare anche le
peggiori emergenze».
Così si rinforza l’Ebola, ma anche l’aviaria, la peste e l’antrace,
insieme al botulino e all’afta epizootica, «un morbo che colpisce gli
animali e che, negli anni passati, ha devastato migliaia di allevamenti
in Europa». Sempre il documento del governo statunitense indica tutti i tipi di ricerche alle quali i protocolli di massima sicurezza
devono essere applicati. «La lista degli esperimenti ad altissimo
rischio svolti nei laboratori americani parla da sola», avverte
Mostallino. Nell’ordine: accrescimento degli effetti dannosi dell’agente
patogeno o della tossina, distruzione delle difese immunitarie,
conferimento all’agente o alla tossina di una resistenza alle efficaci
profilassi cliniche. Si lavora anche per potenziare la stabilità, la
trasmissibilità o lo spargimento dell’agente patogeno, per modificare l’ambiente
che ospita l’agente tossico e per potenziare la sensibilità della
popolazione alla tossina, quindi si studia come abbattere le difese
umane naturali contro la malattia. E infine si parla anche di
«generazione o ricostituzione di un agente patogeno o di una tossina
ormai e radicata tra quelle della lista al punto
precedente», ovvero l’elenco di malattie considerate ad altissimo rischio, tra le quali il governo Usa indica appunto anche l’Ebola.
«È un elenco terribile, che non ha bisogno di commenti», rileva
Mostallino. «Ma l’ultima prassi contenuta nel punto G, cioè la
resurrezione in provetta di un morbo da tempo scomparso ma il cui virus è
conservato nei laboratori, è considerata forse la più letale, perché il
corpo umano ha ormai perduto le capacità di combattere un virus che non
si presenta più da molti anni». Tra le sorprese, si scopre che – in
laboratorio – l’Ebola è diventato trasmissibile anche per via aerea,
mentre la scienza lo considera trasmissibile solo tramite contatto
fisico con pazienti infetti. Eppure, è provato che in due laboratori
nordamericani si sia cercato di potenziare la malattia, rendendo il
contagio possibile senza contatto fisico: «Si tratta di un’altra prova
che per motivi sanitari è stato messo in atto il tentativo di
trasformare l’Ebola in un super-virus, capace di diffondersi con estrema
facilità». Il primo laboratorio, come spiega l’associazione dei medici
canadesi, è il centro studi “Upmc Center for Health Security” di
Baltimora, dove gli Stati Uniti studiano i virus e le tossine che,
secondo il Dipartimento della Difesa, potrebbero essere utilizzati da
gruppi senza scrupoli per attacchi di “bioterrorismo”.
L’altro laboratorio si trova in Canada, a Winnipeg, ed è il “National
Microbiology Laboratory”, nel quale, secondo la rivista
dell’associazione nazionale dei medici canadesi, nel 2012 venne fatta
una «intrigante scoperta»: l’Ebola passò da esemplari di suini ad alcune
scimmie, senza che queste ultime fossero entrate in contatto fisico coi
maiali. Le scimmie – alcuni macachi – si infettarono senza mai toccare
sangue, lacrime o sudore dei maiali. Per “Lettera 43” si tratta proprio
del tipo di ricerca più pericoloso, quell’arma “a doppio taglio” per la
quale il Dipartimento della Salute degli Stati Uniti impone rigidissimi
protocolli di sicurezza. Alla base di tanta esasperazione, la paura del “bioterrorismo” che oggi oppone Stati Uniti e Russia:
«Entrambi i colossi mondiali, infatti, studiano e potenziano l’Ebola,
con l’obiettivo di essere pronti a un eventuale conflitto scatenato dal
nemico attraverso il contagio». Insomma, per Mostallino «è in atto una
sorta di guerra fredda batteriologica che viene combattuta nei
laboratori pubblici e privati, controllati e finanziati dai governi di
Washington e Mosca». Dal 2001 a oggi, ovvero dopo il panico scatenato
dagli attentati dell’11 Settembre sempre secondo la rivista dei medici
canadesi, gli Stati Uniti
hanno
speso 79 miliardi di dollari nei programmi di difesa nazionale contro
gli attacchi batteriologici. Di questi, ben 26 miliardi sono stati
investiti nella specifica ricerca sul potenziamento e il contrasto delle
malattie infettive.
«L’idea di fondo è dunque quella di creare il super-virus, così da
poterlo combattere, prima che sia il nemico a realizzarlo e a
utilizzarlo in una azione terroristica o di guerra tra Stati»,
sintetizza “Lettera 43”. Concreto, quindi, il pericolo
denunciato dal dottor Martin Furmanski, un medico statunitense
specializzato nella ricerca sulle armi biologiche e batteriologiche: in
un recente articolo pubblicato sulla rivista “Bulletin of the Atomic
Scientists” dall’eloquente titolo “Rischio di pandemie e fuga dai
laboratori: una profezia che si auto-avvera”, lo scienziato spiega che
«il rischio di una pandemia provocata dall’uomo e diffusa a causa di una
fuga (di agenti patogeni) da un laboratorio non è ipotetico: un caso
avvenne nel 1977 proprio perché si pensava che il rischio di una
pandemia fosse imminente». Furmanski spiega che si trattava della
“influenza umana H1N1”, ovvero di una ripresa della terribile epidemia
di influenza “Spagnola” che nel 1918 uccise milioni di persone in tutta Europa.
«Il caso più famoso di ritorno del contagio della influenza da “H1N1-A”
fu il riemergere della malattia nel maggio del 1977 in Cina
e poco tempo dopo in Unione Sovietica» per poi diffondersi nel resto
del mondo, soprattutto tra la popolazione giovane, al di sotto dei 20
anni.
Racconta ancora lo scienziato: «Una serie di test genetici
suggerirono sulle prime che potesse trattarsi di un virus fuggito dai
laboratori nel 1949-50» e, anni dopo, «alcune tecniche avanzate di
ricerca genetica confermarono l’ipotesi». Insieme a numerosi virologi
che studiarono il caso, aggiunge “Lettera 43”, Furmanski oggi sostiene
che «ironicamente» l’epidemia fu provocata dalla fuga del virus da un
laboratorio americano nel quale si cercava un vaccino per prepararsi a
fronteggiare un contagio globale che ancora non c’era, e che fu generato
proprio dal tentativo di evitarlo. L’influenza “H1N1” non è il solo
caso di epidemia scatenata dagli apprendisti stregoni: lo scienziato
cita, tra gli altri, gli 80 casi di vaiolo riscontrati in Gran Bretagna
tra il 1963 e il 1978 a causa di tre differenti fughe del virus da
altrettanti laboratori nei quali veniva studiato e rafforzato. Oggi gli
scienziati ritengono che «se un agente patogeno riappare dopo anni o
decenni di assenza, si può ritenere che sia fuggito da un laboratorio
nel quale era stato conservato inerte per anni». Che la costruzione di
un super-virus dell’Ebola fosse in corso al momento della ricomparsa
della malattia, praticamente sparita da anni – conclude Mostallino – è
un dato assodato e ammesso dagli stessi laboratori nordamericani, oltre
che dal protocollo di sicurezza del governo Usa, il quale mette in guarda contro gli enormi rischi della “dual research”, la ricerca a doppio taglio.
Fonte
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