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Saturday, May 12, 2012

E.T., l'alieno dagli occhi di gatto

L’11 giugno del 1982 usciva nelle sale il film sulla storia di un tenero extraterrestre rimasto sulla terra. Trent’anni anni dopo Carlo Rambaldi, il mago che realizzò il pupazzo, ricorda come nacque e a chi si ispirò


Carlo Rambaldi con una delle sue "creature" più famose, E.T.
Carlo Rambaldi con una delle sue "creature" più famose, E.T.
di Giuseppe Videtti




Anche lui sembra un po’ alieno. Carlo Rambaldi ha le ciglia cespugliose, gli occhi severi, lo sguardo inafferrabile. Sospettoso, minaccioso a volte. Come le sue creature, spaventose nell’aspetto, tenerissime nel profondo. Avrebbe fatto un figurone sul set di Blade Runner. A Hollywood glielo dicevano, saresti perfetto per le parti da cattivo. Ma lui aveva altre idee per la testa. E ha fatto bene a non deragliare mai, a inseguire il suo sogno. Perché se gli Oscar non sono noccioline, lui ne ha incassati tre. La sua fierezza, ma anche un orgoglio per l’Italia. Il primo arrivò nel 1977 per King Kong, il secondo nel 1980 per Alien. E il terzo nel 1983 per E.T., il film di Steven Spielberg uscito l’11 giugno del 1982. Messo in cantiere con un budget di 10,5 milioni di dollari, ne incassò 200 nei primi due mesi di programmazione. Numeri che fecero impallidire anche le cifre record di Guerre Stellari, azienda George Lucas (486 milioni in cinque anni). Merito di un regista che ha talento da vendere, non c’è dubbio. Della sceneggiatura in forma di favola moderna, è evidente. Ma sarebbe stato un successo così travolgente se Rambaldi non fosse riuscito a creare un E.T. dalla simpatia contagiosa? Una creatura con la quale grandi e piccini avrebbero sviluppato una sintonia immediata, al punto da desiderarlo in casa, come un cane o un gatto? Sul finale del film, anche il presidente Reagan e sua moglie piansero. E diventarono fan di Spielberg, «il nostro regista preferito», che poi incontrarono privatamente nel 1986.

«È ovvio che gli occhi di E.T. ricordino quelli di un felino, per i primi bozzetti mi ispirai al muso del gatto himalayano visto frontalmente, stesse linee espressive», conferma Rambaldi, che ha 87 anni e ora guarda Hollywood da lontano. Si è ritirato a Lamezia Terme, dove vive con la moglie Bruna e la figlia Daniela, che ha sposato un imprenditore calabrese. A Spielberg, la storia del gatto sembrò riduttiva, e soprattutto poco intrigante. Il regista sbandierava nelle interviste che il viso della «creatura» era una combinazione delle facce di Albert Einstein, Ernest Hemingway e Carl Sandburg.

Nel 1982 le foto del curioso mostriciattolo col suo “papà” — geometra di Vigarano Mainarda, provincia di Ferrara, laureatosi nel 1951 all’Accademia delle Belle Arti di Bologna — erano ovunque, dalla Pravda al New York Times. Inseparabili, come Elliott Handler e la sua Barbie. Fino a quel momento, nonostante fosse emigrato a Hollywood da sette anni e avesse già due Oscar sul caminetto, era «The Italian craftsman», l’artigiano; dopo il trionfo di E.T. «Carlo Rambaldi, the artist». Di solito c’è sempre una canzone a sigillare un’estate, ma quella del 1982 fu letteralmente invasa dalla voce senza musica del piccolo extraterrestre che bofonchiava «telefono… casa…».

Dopo due mesi di programmazione, “Rambaldi-The-Artist” era già preso d’assalto. In un’intervista del 23 agosto 1982 raccontava: «Steven Spielberg mi ha chiesto: “Di quanto tempo hai bisogno per realizzare E.T.?”. “Di circa nove mesi”, gli ho risposto. “Devi cavartela in sei”, ha tagliato corto. Il che significa che ho dovuto lavorare dalle quindici alle venti ore al giorno. Cinquemila ore in tutto, e ho consegnato con due settimane di anticipo. Costo? 1,5 milioni di dollari». Il regista gliene diede atto. Lo stesso mese dichiarò al giornalista Jim Calio di People Magazine: «Carlo è il numero due di questo film».

Col passare degli anni, Rambaldiha aggiunto particolari alla leggenda che ha trasformato E.T. nella creatura più riuscita della sua officina di «meccatronica», la combinazione tra meccanica ed elettronica che il computer non è mai riuscito a sostituire finché lui è rimasto a Hollywood: «A Spielberg non erano piaciuti gli extraterrestri che si vedono alla fine di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Questa volta voleva creature affascinanti, credibili. Fu allora che mi venne in mente un vecchio quadro cubista che avevo dipinto da ragazzo, a Ferrara. Ritraeva lavandaie magre e dal collo allungato chine sul greto del Po. Sono loro le madri di E.T.».

Il tenero extraterrestre ha incassato nelle sale poco meno di 800 milioni di euro e oltre mille milioni in merchandising — una piccola parte in royalty è andata all’artigiano più premiato del cinema. Nel 2002, quando fu presentata la versione restaurata del film in occasione del ventennale, Rambaldi così spiegava il successo del suo fedele alieno: «Piace perché non riesci a capire che età abbia e per la grande innocenza che trasmette: per avere questo effetto ho messo una distanza tra un occhio e l’altro che è il doppio di quella umana. Persino la forma della testa, rugosa come quella dei cuccioli di certi primati, intenerisce». Oggi come allora, il Mastro Geppetto degli effetti speciali ha solo un rammarico. Non aver mai realizzato il Pinocchio che desiderava. Prima quello di Comencini, poi quello di Benigni.

Fonte: http://trovacinema.repubblica.it

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