John Elliott è un docente di informatica e tecnologie creative alla
Leeds Metropolitan University, con una passione particolare: comunicare
con gli alieni
Il professor Elliott infatti studia da circa venti anni speciali
algoritmi che gli consentono di decifrare le lingue sulla terra e
ritiene che un giorno tali ricerche potranno essere finalizzate nella
decodificazione dei segnali alieni dallo spazio, il giorno in cui
avverrà l’atteso e temuto primo contatto – naturalmente, sempre se tale
evento si verificherà.
Il professore, dopo essersi laureato nel 1990 in “intelligenza
artificiale”, è riuscito ad ottenere un dottorato di ricerca al SETI.
“La mia specialità è l’elaborazione del linguaggio naturale” ha dichiarato al DailyMail, “Capire cioè la struttura di un linguaggio base comune e poterlo analizzare attraverso un computer.”
Con l’obiettivo di riuscire a comprendere linguaggi sconosciuti, ha
quindi iniziato a catalogare e studiare tutti gli idiomi esistenti sulla
terra. Un lavoro che nel 1999 attirò l’interesse del Seti, che lo
definì fondamentale nell’interpretazione di segnali alieni.
Prima di occuparsi del linguaggio alieno, il dottor Elliott aveva
trascorso gli ultimi anni della sua carriera studiando circa 60 lingue
diverse terrestri.
Osservandone la struttura e la frequenza di alcune parole ha creato un
insieme di algoritmi che, se applicati ai diversi linguaggi, potevano
evidenziarne le similitudini.
“Osservando questi piccoli particolari siamo stati in grado di
realizzare un’ossatura base comune del linguaggio umano. Le parole, i
segni convenzionali delle differenti culture, sono il contenitore di una
matrice linguistica base comune a tutte le civiltà. I suoni che
riproduciamo sono solamente la punta di un’iceberg che si mostra in
maniera apparentemente variegata e dissimile in ogni fonema. In realtà i
linguaggi hanno una struttura molto simile fra loro: quando ho
confrontato la lingua cinese con quella inglese ho osservato che molte
parti del discorso erano sostanzialmente identiche. Anche la lingua dei
delfini ha una struttura base analoga, espressa però ad una frequenza
molto più elevata rispetto a quella dell’uomo.”
Ha spiegato John Elliott. Se un segnale extraterrestre un giorno dovesse essere rilevato – cosa
di cui il dottor Elliott si dichiara certo – gli interpreti dovrebbero
innanzitutto comprendere la natura del flusso di dati: se essi sono
riprodotti da un’intelligenza extraterrestre o se si tratta
semplicemente di suoni casuali.
“Se il messaggio è lanciato con il fine di trasmetterci alcune
informazioni allora vuol dire che noi siamo in grado di decodificarlo, e
possiamo anche determinato lo stato evolutivo della civiltà che l’ha
emesso.”
Ha spiegato Elliott. In sostanza, tanto più è articolato il linguaggio
nella sua struttura, maggiore sarà l’intelligenza del suo creatore e di
conseguenza il livello di sviluppo scientifico raggiunto.
Ma di che natura potrebbe essere il primo messaggio di una civiltà aliena inviato alla Terra?
Su questo, il dottor Elliott non è sicuro.
“Questa è una domanda interessante, sulla quale il SETI si è già
interrogato alcuni anni fa. Riteniamo che il primo messaggio possa
essere qualcosa di molto breve, come un semplice Ciao, al fine di
stimolare la risposta di una razza intelligente come la nostra.”
Ha specificato Elliott.
Evidentemente, qualora una civiltà avesse l’interesse di annientarci non
perderebbe tempo a comunicare con noi lanciandoci segnali alieni da
decodificare ma passerebbe direttamente ai fatti.
“In alternativa potrebbe essere un codice per aiutarci a decifrare la loro lingua, un po’ come la Stele di Rosetta.”
A prescindere dalla natura di questo primo contatto, il dottor
Elliott è molto fiducioso sulla possibilità di ricevere un messaggio.
“Siamo alla ricerca di segnali alieni nell’Universo da 50 anni, ma
non abbiamo mai avuto una tecnologia adatta a captarli nel modo giusto.
Adesso è come se fossimo usciti dall’età della pietra e la potenza dei
nostri computer è in crescente aumento.”
Il professore specifica che essendo lo spazio potenzialmente
infinito, è necessario sapere le zone – almeno orientativamente – verso
cui indirizzare le nostre ricerche su forme di vita extraterrestre.
Cercare vita nello spazio è un po’ come cercarla nel nostro pianeta: se
un’astronave atterrasse a New York troverebbe un brulicare di uomini e
umanità in fermento. Al contrario, se questi esploratori capitassero nel
deserto del Gobi non troverebbero nulla e penserebbero di essere finiti
in un mondo disabitato.
Proprio il mese scorso gli scienziati hanno individuato il primo pianeta
esterno al sistema solare con caratteristiche simili alla terra, dove
potrebbe essere presente acqua e conseguenzialmente anche la vita.
Il corpo celeste si chiama Kepler186-f. Potrebbe essere questo il
prossimo obiettivo del SETI nel lungo viaggio alla scoperta
dell’intelligenza extraterrestre?
Fonte
Commento di Oliviero Mannucci: Cercare la vita nello spazio richiede da parte dei scienziati un apertura mentale molto al di sopra della media. La Terra è visitata dagli alieni da almeno 50000 anni e la maggior parte degli scienziati, nonostante la voluminosa casistica di avvistamenti, testimonianze ed incontri con ET, si comportano come se fossero nel deserto del Gobi, non vogliono vedere l'evidenza dei fatti, questo a causa della loro aridità mentale che li porta a cercare segnali extraterrstri con grandi radiotelescopi ma ad ignorare di fatto quello che è proprio sotto il loro naso. Come disse l'astrofisico Labeque, in un congresso del SETI del 2008 a Parigi, riferendosi agli ET : Something is Here!, qualcosa è qui, ma c'è ancora qualcuno che preferisce comportarsi come gli struzzi. Ecco perchè la terra vive ancora nel medio evo!
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