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Monday, April 16, 2012

Ho un orto in orbita

di Giovanni Sabato

Grano, riso, patate. Ma anche fragole e cipolle. Un rapporto della Nasa spiega che coltivare fuori della Terra è possibile. Tra frumento Apogee, pomodoro Microtina, Riso Supernano, ecco come sarebbe possibile seminare nello spazio

Una specie su un solo pianeta non ha futuro. Se vogliamo sopravvivere per centinaia di migliaia di anni, prima o poi dovremo popolare altri mondi. Non so quando, ma un giorno gli umani fuori dalla Terra saranno più di quelli sulla sua superficie". Sono parole da visionario. Ma se il visionario che nel 2005 le ha pronunciate si chiama Michael Griffin, e per mestiere faceva il direttore della Nasa, forse c'è da credergli.

Ma per colonizzare lo spazio, serve, innanzitutto, capire come poterci far crescere delle piante. Innanzitutto per produrre cibo: un continuo rifornimento da terra per affollate colonie orbitali sarebbe un incubo logistico dai costi immani, e per pianeti lontani semplicemente impossibile. Il cibo andrà prodotto in sede. "Per colonizzare pianeti extraterrestri sarà necessaria una nuova agricoltura, lo space farming. Per svilupparla servirà il concorso di molteplici discipline biologiche, agrarie e ingegneristiche: sarà una vera palestra delle scienze biologiche", dice Giacomo Pietramellara, dell'Università di Firenze, in un convegno all'Accademia dei Georgofili che ha fatto il punto sull'agricoltura spaziale.
Ma non solo: le piante e il suolo, con la sua comunità microbica, sono i pilastri su cui ricostruire, nel sistema isolato dell'astronave, un piccolo ecosistema che realizzi i cicli vitali: per smaltire i rifiuti, riciclare i residui organici degli astronauti e l'anidride carbonica, rigenerare acqua pulita, ossigeno, nutrienti. Le piante possono agire inoltre da biosensori, segnalando tempestivamente un eccesso di inquinanti nel suolo o nell'aria.

A tutt'oggi, però, non sappiamo simulare a terra un ambiente autonomo, con un ecosistema chiuso in grado di ricreare cicli bio e geochimici completi così che microbi, piante ed equipaggio possano autosostentarsi senza apporti esterni: dagli storici esperimenti Biosfera fatti dalla Nasa negli anni Ottanta, al sofisticato simulatore Melissa dell'Esa, nessun dispositivo ha mai raggiunto la piena autosufficienza. E anche per le aspiranti astropiante le prime esperienze non sono state confortanti: le piante cresciute nello spazio erano piene di anomalie.


Ma il tempo per fortuna ha sovvertito il verdetto. "I risultati erano viziati da problemi sperimentali: temperature eccessive, materiali non consoni", spiega Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale all'Università di Firenze: "Negli esperimenti più recenti si è visto che è possibile ottenere piante nello spazio. L'unico effetto confermato è il nanismo: dal seme terrestre cresce una pianta normale, ma le sue figlie sono più basse e la statura cala di generazione in generazione, almeno per le quattro o cinque coltivate sulla Mir russa".

A partire dagli anni Ottanta, le ricerche hanno battuto in parallelo due grandi filoni: piante ottimizzate per l'ambiente spaziale e tecnologie per coltivarle. In un viaggio spaziale la prima cosa che scarseggia è lo spazio. "Perciò le varietà ideali devono essere corte, commestibili quasi per intero, e a rapida crescita", spiega Luigi Cattivelli, del Centro di ricerca per la genomica di Fiorenzuola d'Arda, nel piacentino: "Poi devono richiedere poca luce perché l'energia è preziosa. E resistere a eventuali malattie".
Perciò si studiano varietà adattate allo spazio, spesso super-nane, sia di colture fondamentali come grano, riso e patate, sia di cibi complementari come lattuga, cipolle, pomodori e fragole.

Fatte le piante, c'è da capire su cosa crescerle. "Con i suoi minerali e una o due tonnellate per ettaro di brulicante vita microbica, il suolo non è solo un substrato ma un complesso bioreattore, responsabile di molte funzioni rigenerative dell'ecosistema", dice Pietramellara.
Le sfide sono tante: in un terreno fine e con bassa gravità, acqua e gas circolano male, si accumulano sali e le radici faticano a respirare e smaltire il calore. Inoltre sali fortemente perclorati e composti tossici come i metalli pesanti rendono arduo indurre e mantenere la fertilità, e possono richiedere interventi di bonifica e l'uso preliminare di specie iperaccumulatrici che puliscano il terreno per quelle alimentari. (16 aprile 2012)

Fonte: http://espresso.repubblica.it

Progetto MELISSA


Melissa


Trasportare il cibo, l'ossigeno e l'acqua dalla Terra per missioni spaziali di lunga durata e' chiaramente impossibile, tenendo conto che l'obiettivo e' quello di rimanere sul suolo marziano per diverso tempo. Per esempio, un equipaggio di 6 persone che faccia un viaggio di 3 anni per Marte richiederebbe un carico di 33 tonnellate piu' i materiali di rifiuto. Il progetto MELISSA (Micro-Ecological Life Support System Alternative) studia come con l’aiuto di micro-organismi e piante superiori sia possibile ricostruire a bordo di una navicella spaziale, o in un sito fisso sul suolo marziano, un ciclo vitale che permetta la sopravvivenza e la reciproca assistenza di uomini, piante e batteri. Il punto fondamentale su cui si basa Melissa e il recupero di cibo, acqua potabile e ossigeno dagli elementi di scarto come l'anidride carbonica, i minerali, l’urina e le feci prodotti nel corso della missione stessa. I rifiuti sono processati dalle piante, che contribuiscono alla produzione di ossigeno e alla purificazione dell’acqua, e al tempo stesso forniscono cibo. Melissa è composta da cinque compartimenti addetti a specifiche funzioni, colonizzati da batteri termofili anaerobici, batteri fotoeterotrofi, fotosintetici, piante superiori (come, per esempio, orzo, patate, soia, spinaci, lattuga e cipolle) e l’equipaggio.

Il primo è il comparto “liquami”, colonizzato da batteri termofili, cosi' chiamati perche' abitano in ambienti a temperatura elevata (55 gradi°C). In questo comparto vengono biodegradati i rifiuti dell’equipaggio, ossia trasformati in idrogeno molecolare, nitrati, biossidi di carbonio, acidi grassi gassosi e minerali. L’anidride carbonica prodotta in questa prima fase viene utilizzata nel comparto 4 (fotosintesi).

Gli acidi grassi gassosi e l’ammoniaca prodotti nel comparto 1 vengono forniti al comparto 2, dove si produce carbonio organico. Il comparto 3 serve soprattutto per convertire l’ammoniaca e i minerali in nitrati, fonte da cui ricavare l’azoto. Il comparto 4 si occupa di eliminare l’anidride carbonica, generando biomassa commestibile per la fornitura di cibo, di recuperare l’acque e rigenerare ossigeno per l’equipaggio. Insomma, partendo da rifiuti organici e utilizzando processi naturali, si riesce ad ottenere le principali sostanze per il supporto vitale dei navigatori spaziali.


Il punto fondamentale su cui si basa Melissa e il recupero di cibo, acqua potabile e ossigeno dagli elementi di scarto come l'anidride carbonica, i minerali, l’urina e le feci prodotti nel corso della missione stessa. I rifiuti sono processati dalle piante, che contribuiscono alla produzione di ossigeno e alla purificazione dell’acqua, e al tempo stesso forniscono cibo. Melissa è composta da cinque compartimenti addetti a specifiche funzioni, colonizzati da batteri termofili anaerobici, batteri fotoeterotrofi, fotosintetici, piante superiori (come, per esempio, orzo, patate, soia, spinaci, lattuga e cipolle) e l’equipaggio.

Il primo è il comparto “liquami”, colonizzato da batteri termofili, cosi' chiamati perche' abitano in ambienti a temperatura elevata (55 gradi°C). In questo comparto vengono biodegradati i rifiuti dell’equipaggio, ossia trasformati in idrogeno molecolare, nitrati, biossidi di carbonio, acidi grassi gassosi e minerali. L’anidride carbonica prodotta in questa prima fase viene utilizzata nel comparto 4 (fotosintesi).

Gli acidi grassi gassosi e l’ammoniaca prodotti nel comparto 1 vengono forniti al comparto 2, dove si produce carbonio organico. Il comparto 3 serve soprattutto per convertire l’ammoniaca e i minerali in nitrati, fonte da cui ricavare l’azoto. Il comparto 4 si occupa di eliminare l’anidride carbonica, generando biomassa commestibile per la fornitura di cibo, di recuperare l’acque e rigenerare ossigeno per l’equipaggio. Insomma, partendo da rifiuti organici e utilizzando processi naturali, si riesce ad ottenere le principali sostanze per il supporto vitale dei navigatori spaziali.

Commento di Oliviero Mannucci: Se vuoi saperne di più guarda questa mia presentazione realizzata per il convegno del Cusi del 2009, dove fui invitato a parlare della prossima missione su Marte. Scambiai la mia presentazione con il biologo molecolare Yuri Malagutti e lui la utilizzò come modulo didattico nelle scuole dove insegna, aggiungendovi solo l scritta in arancio " Vedi la fisica di Star Strek ( ha sbagliato, avrebbe dovuto scrivere Star Trek) .

Clicca su questo link: http://zyxel-nsa210.lilu2.ch/MyWeb/public/chimica/Devittori/corso_scienze_sperimentali_111/Lezioni_Malagutti/Missiontomars_III_Full.pdf

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