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Tuesday, August 21, 2012

Speciale dossier: Italsider/Ilva, 50 anni di veleni.

Italsider/Ilva, 50 anni di veleni. - Taranto - FuturaTv
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Taranto - Un agosto così rovente nella città definita della Magna Grecia non lo si viveva dai tempi di Filonide di Taranto che, nel 282 a.C., sfidò il potere di Roma orinando sulla toga del console Postumio.
I Tarantini in quell’occasione, che già odiavano Roma per le sue mire espansionistiche e per gli aiuti che aveva sempre prestato ai governi aristocratici, videro con l’arrivo della flotta romana nel loro porto ,una violazione del trattato del 303 a.C. e non esitarono ad affrontarla con la propria, riuscendo ad affondare quattro navi, a catturarne una e facendo molti prigionieri tra i romani. Roma per evitare una guerra che avrebbe richiamato le milizie greche e cartaginesi inviò nella città bimare un console, Lucio Postumio, per chiedere con fermezza la restituzione della nave e dei prigionieri catturati.

Fu in quella occasione che Filonide umiliò per la seconda volta Roma cacciando via il console dalla città non prima di aver fatto un’abbondante “pipì” sullo stesso. A distanza di 2294 anni sembra che a Taranto si stia vivendo una situazione analoga. Il pomo della discordia questa volta però si chiama Ilva di Taranto, il più grande stabilimento siderurgico nella zona euro.
Da Roma il prossimo 17 agosto arriveranno in riva allo jonio, per ordine del Presidente del Consiglio Mario Mont, i tre ministri. Passera, Clini e Severino, rispettivamente ministri dello Sviluppo Economico, Ambiente e Giustizia, saranno a Taranto per cercare di scongiurare la chiusura di uno stabilimento che è anima e motore dell’economia Italiana.
Lo stesso però è la causa di una situazione sanitaria ai limiti del vivibile e del mortale come descritto dalla perizia della magistratura tarantina che inchioda la fabbrica dell’acciaio davanti alle sue colpe. I cittadini in questi anni hanno invaso le piazze per rivendicare il loro diritto a vivere e non ammalarsi per il bene di una nazione.

I lavoratori in questi giorni si sono riversati in strada per rivendicare il loro diritto al lavoro. Una storia lunga oltre cinquant’anni che ha visto all’interno del siderurgico prima la proprietà statale con Italsider del Gruppo Iri e poi, dal 1995, quella privata con Ilva della famiglia milanese Riva. Era il 9 luglio del 1960 quando, alla presenza del Ministro dell’Industria Emilio Colombo, fu posta la prima pietra che avrebbe portato, in poco tempo, a far divenire l’attuale Ilva, allora Italsider, lo stabilimento più grande d’Italia e d’Europa. Fu fatta una battente campagna informativa per far percepire quello stabilimento come una speranza per la popolazione, come un’opportunità di miglioramento delle condizioni di vita. Fu decisa la localizzazione dello stabilimento con superficie di 528 ettari (poi passerà a 1500 ettari, 2 volte la superficie dell’intera città) , separato dalle abitazioni cittadine solo da una strada statale senza tener conto delle prescrizioni del Piano Regolatore. I bulldozers sradicarono ventimila alberi di ulivo tra l’indifferenza generale, anche di quei proprietari terrieri che vennero comunque risarciti con buoni indennizzi. Subito dopo l’avviamento del primo altoforno, parliamo del 1964, iniziarono a sorgere i primi problemi di carattere ambientale.

L’associazionismo ambientalista locale, nel 1974, muoveva i primi passi convocando manifestazioni pubbliche nelle vie del centro cittadino e momenti di sensibilizzazione e riflessione soprattutto nel quartiere Tamburi, il più colpito dall’attività industriale e, durante una manifestazione del 31 gennaio, furono esposti in Piazza della Vittoria panni simbolicamente anneriti dal fumo, sugli alberi della stessa piazza furono appesi cartelli che riportavano la scritta “reliquia”, furono esposte altre “reliquie” contenenti “aria non inquinata”, “acqua dello Jonio non inquinata” e “terreno agrario purissimo”. Cosa fece l’amministrazione locale di quegli anni? Decise di condurre uno studio sull’inquinamento atmosferico. I primi risultati indicavano abbastanza chiaramente che nella zona occidentale della città esisteva un processo di crisi ambientale . Sembra di leggere, insomma, la storia del 2010 quando Stefàno, il sindaco di

Taranto, richiedeva dati scientifici e non favolette dagli ambientalisti. I dati anche in quella occasione arrivarono ma le azioni concrete da parte dell’Ente civico no. Proprio come negli anni 70. Cosa fece l’ex Italsider (gestione statale)? La direzione dello stabilimento annunciava investimenti per 50 miliardi di lire per il perfezionamento e potenziamento di impianti di depurazione e abbattimento dei fumi, e la collaborazione con una società statunitense, la Ecological Science Corporation, per la revisione del processo produttivo. Per i lavori si annunciavano ulteriori investimenti in eco-compatibilità per 75 miliardi di lire. Anche in questo caso ci sembrano informazioni recenti e non degli anni 70. L’attuale Ilva ha investito e come è stato ribadito negli ultimi 2 anni continuerà ad investire in eco-compatibilità milioni di euro ma il problema ambientale, nonostante il famosissimo impianto Urea e quello recente a iniezione carbone attivo e il tanto osannato impianto di depolverazione costati decine di milioni di euro, è ancora là. Tutto sembra ripetersi a fasi cicliche e con risultati a fotocopia.

Nel 1975 si registrava un crollo del consumo mondiale di acciaio (-8%). Solo nei Paesi della Comunità Europea la diminuzione fu addirittura del 18%. Il costo del lavoro all’Italsider si collocava ad un livello nettamente superiore alla media nazionale. In effetti la forza-lavoro Italsider era ben organizzata, dotata di un elevato potere contrattuale, grazie alla presenza di un sindacato forte di una percentuale di adesioni del 75%. Niente cassa integrazione ordinaria e straordinaria in quegli anni come invece è accaduto per tutto il 2009, 2010 e 2011.

Nel 1981 a seguito delle innumerevoli segnalazioni sugli impianti che abbracciavano tutto il polo industriale jonico la magistratura iniziava le prime indagini. La Pretura di Taranto apriva pertanto un fascicolo per getto di polveri e inquinamento da gas, fumi e vapori, i vertici dell’Italsider.

Il processo del 1982, vedeva la partecipazione di numerosi testimoni provenienti dai quartieri più a rischio d’inquinamento industriale (Tamburi, Città Vecchia, Paolo VI) e, almeno in una prima fase, la costituzione di parte civile non solo di associazioni ambientaliste ma anche del Comune. Ma un colpo di scena cambiava le fasi finali del processo condizionando la sentenza: il sindaco dell’epoca, Giuseppe Cannata, annunciava la revoca della costituzione di parte civile del Comune per motivi di opportunità politica. La stessa farsa che poi la città vedrà con la giunta Di Bello e Florido anno 2004 in un analogo processo. Risultato? Il processo si concluse con la condanna del direttore dello stabilimento Italsider a 15 giorni di arresto con l’accusa di getto di polveri ma non di inquinamento da fumi, gas e vapori.

Il Ministero dell’Ambiente, ci spostiamo nel 1991, dichiarava l’area di Taranto “area ad elevato rischio ambientale”. L’area interessata, oltre al comune di Taranto, comprendeva altri 4 comuni della provincia jonica (Crispiano, Massafra, Montemesola, Statte) per un totale di 564 km quadrati e 263.614 abitanti. La storia di oggi qui fa un passo in avanti. Il 23 giugno 2010 il Sindaco Stefàno emana 2 ordinanze contingibili e urgenti che vietano a tutti i cittadini di usufruire delle aree verdi del quartiere Tamburi perché contaminate da sostanze cancerogene e pericolose per la salute dell’uomo.

Nel 1995 assistevamo al passaggio di consegna del siderurgico tra Iri e il Gruppo Riva. Il costo dell’operazione sarà di 1.460 milioni di lire facendo nascere Ilva. Nel 1996 la Regione Puglia veniva investita di competenze speciali in materia ambientale e nel 1997 siglava con Ilva il Primo Atto d’intesa che non prevedeva nè limiti di tempo più stringenti in fatto di risanamento nè il ricorso a sanzioni in caso di inadempienze. Il sindacato Uil iniziava a distinguersi da Cgil e Cisl e
denunciò la mancanza di impegno su una serie di problematiche ambientali presenti all’interno dello stabilimento. Anche in questo caso sembra di vivere la storia attuale: Cisl e Cgil che si schierano a favore della grande industria tralasciando senza giri di parole il problema ambientale in città e facendo ricorso contro il referendum promosso da Taranto Futura per la chiusa e riconversione del siderurgico.

Nel 2000 si registravano le prime relazioni allarmanti del Presidio Multizonale di Prevenzione PMP (uffici tecnici delle ASL) circa l’inquinamento prodotto dalla produzione del coke con richiesta del fermo delle batterie 3 e 6.

In base alle ipotesi di reato segnalate dalla relazione del PMP sull’inquinamento industriale dell’Ilva veniva realizzata una perizia a seguito della quale si invitavano gli organi istituzionalmente competenti ad intervenire. L’amministrazione comunale, con una “storica” ordinanza sindacale (6 febbraio 2001) ordinava, entro 15 giorni (poi passati a 90) dalla notifica dell’ordinanza, di realizzare interventi migliorativi relativamente ai forni delle batterie 3 e 6, di ridurre la produzione di coke con il fermo delle batterie 3 e 6 o alternativamente di procedere alla sostituzione delle stesse. Scoppiava così la “vertenza ambiente”. Le confederazioni sindacali erano contrarie alla “vertenza ambientale”. Intanto arrivarono i primi avvisi di garanzia al Gruppo Riva. Nel 2002 arrivava la condanna di primo grado per il procedimento iniziato nel 1999 ed inizierava l’era delle intese Accordo di Programma, il primo Atto di intesa, ne seguiranno altri 3. Solo dopo la sottoscrizione del 3° Atto d'intesa(2004), Comune e Provincia ( Di Bello- Florido) ritireranno la costituzione di parte civile nel processo che aveva visto la condanna in primo grado dei vertici dello stabilimento per le polveri del parco minerari che ricadevano sul quartiere Tamburi (succede come nel 1982) .

Il 14 giugno del 2007 Ippazio Stefano veniva proclamato Sindaco di Taranto. Veniva riorganizzata L'Arpa (Agenzia Regionale Per l'Ambiente) che iniziava una campagna di rilevamento dei dati dell'inquinamento prodotto dall'Ilva. Emergeranno dati preoccupanti soprattutto per quanto riguarda le emissioni di diossine e di idrocarburi policiclici aromatici. A maggio, PeaceLink, Uil Taranto e il Comitato contro il rigassificatore, presentarono un dossier allarmante sull'inquinamento. Subito dopo, a giugno di quell’anno, l'Ilva querelerà i relatori del dossier sull'inquinamento per "procurato allarme ambientale". Cominciava nuovamente a diffondersi un diffuso senso di preoccupazione tra la popolazione. Dal 2008 al 9 luglio 2010 la cittadinanza si sveglierà e reagirà grazie alla presenza di innumerevoli associazioni pro ambiente. L’era delle intese tra le istituzioni si concludeva così perché i cittadini iniziavano a fare la voce grossa stufi di una politica che in 50 anni aveva portato tanti rinvii e molte promesse mai mantenute. Nel 2008 Altamarea, che racchiudeva 18 fra associazioni e movimenti ambientalisti, organizzava la più grande manifestazione contro l’inquinamento a Taranto portando in piazza oltre 20mila persone. Ripeterà la stessa cosa nel 2009.

Il 20 novembre 2008, all'ospedale Testa di Taranto, veniva presentata la nuova legge regionale sulle emissioni di diossina, approvata poi il 16 dicembre. La Legge imponeva, a tutti gli impianti che producevano diossine, di rispettare i limiti alle emissioni di 0,4 nanogrammi per metro cubo, all’ora in linea con quelli indicati dal Protocollo di Aarhus. Dopo l’approvazione della “legge antidiossina” l’Ilva minacciava un ricorso contro la legge per incostituzionalità . Il 17 gennaio Legambiente avviava a Taranto la campagna nazionale "Mal'aria" e successivamente presentò il libro bianco sull’inquinamento atmosferico da attività produttive in Italia.

Taranto in questo rapporto annuale risultava essere la città più inquinata d’Italia. Le ultime vicende che portano ad oggi parlano di elevate quantità anche di bonzo(a)pirene, un idrocarburo policiclico aromatico genotossico e cancerogeno, ma anche di dati che provengono da Arpa, ISPRA, EPA, E-PRTR i quali dicono che questa è una città messa in ginocchio da una marea di sostanze inquinanti che superano di tantissimo i limiti imposti dalla legge. Taranto è la città più inquinata d’Europa con un elevato tasso di mortalità per tumore, cancro, e neoplasie in età pediatrica.

Nel 2010 il commissario Ue all'ambiente Stavros Dimas, in risposta ad un'interrogazione dell’allora eurodeputato Luigi De Magistris, affermava che “per l’Ilva nessuna autorizzazione è rilasciata in conformità alla direttiva Ippc”.
Ad aprile scoppiava il caso beno(a)pirene uno dei cancerogeni genotossici più pericolosi che minacciava la salute della città. L’associazione PeaceLink pubblicava i dati dell’inquinante: per 3 anni consecutivi si attestava il superato i limiti di legge. Associazioni e comitati pro-ambiente chiederanno la chiusura dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto. La Regione Puglia rispondeva con una legge definita “anti-benoz(a)pirene” però fortemente criticata perché priva di prescrizioni forti.

Arrivano anche i dati dell’istituto ISPRA da parte dell’associazione ambientalista “Taranto libera” , ora LegamJonici. I dati allarmavano tutti tranne le istituzioni tarantine e romane: benzene: valore soglia 1.000, Ilva rispondeva con un quasi 16.000; biossido di carbonio: valore soglia 100.000, Ilva 10.731.887; arsenico e composti: valore soglia 20, per l’Ilva è 177; diossine + furani: valore soglia 0,1, Ilva quasi 100; PM10: valore soglia prevede 50, Ilva 3.378. Il 19 maggio 2010 il Procuratore Franco Sebastio venne costretto a convocare un vertice per parlare della questione ambientale al quale partecipavano tutte le istituzioni politiche, organi sanitari e di controllo della città di Taranto : “Se l’inquinamento avrà ad esempio – disse Sebastio- effetti negativi sull’ambiente o sulla salute delle persone allora gli organi a dover intervenire saranno quelli ad avere delle competenze specifiche in quel settore. Se poi, sempre l’inquinamento dovesse avere anche delle conseguenze negative dal punto di vista legislativo, allora ad intervenire sarà anche l’autorità giudiziaria competente”. Partivano così a luglio del 2010 le indagini da parte della Procura di Taranto che vedevano esponenti dell’Ilva di Taranto accusati di disastro ambientale. Intanto ad agosto veniva votato il decreto legislativo 155/2010 con il quale il Governo permetteva all’Ilva di continuare ad inquinare “a norma” la città di Taranto con il benzo(a)pirene. Nel 2011 i tarantini scoprivano che le cozze erano inquinate da diossine e pcb. Si passerà così alla distruzione delle stesse e alla perdita di centinaia di posti di lavoro. Per diossina erano già stati abbattuti migliaia di capi di bestiame ed una ordinanza della Regione Puglia venne emanata per vietare il pascolo entro un raggio di 20 km dal polo industriale. Ad agosto l’allora ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, firmava il decreto per il rilascio dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) allo stabilimento Ilva. Critiche non si risparmiavano da parte delle associazioni ambientaliste dato che Regione Puglia e Comune di Taranto non avevano presentato nessuna prescrizione.

Arriviamo così ai nostri giorni con l’intervento della magistratura tarantina e con una super-perizia che ha portato la stessa a sequestrare gli impianti dell’area a caldo dopo la chiusura dell’incidente probatorio avvenuto il 30 marzo 2012. Il 26 luglio con un nuovo accordo di programma venivano stanziati per la bonifica di Taranto 336 milioni di euro. In parte questi fondi andranno non per la bonifica ma per altre opere.

Intanto Ilva impugnava il provvedimento del GIP Patrizia Todisco davanti al Tribunale del Riesame. Il Riesame modifica qualche giorno fa in parte il provvedimento del GIP ma la stessa Todisco con una nuova ordinanza impone oggi il fermo della produzione. Monti è costretto a far arrivare per giorno 17 agosto i suoi uomini a Taranto per cambiare le sorti dello stabilimento. Un conflitto/scontro tra politica e magistratura ci mancava per erodere ancora un altro poco quello che noi chiamiamo Paese democratico e repubblicano.

Antonello Corigliano

Fonte: http://www.futuratv.it

Le 1700 vittime di Ilva in 13 anni


27/07/2012 - La perizia che accuserebbe l'azienda fra decessi, tumori e malattie respiratorie

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All’Ilva di Taranto occorrono “interventi rapidi” per evitare un incremento di patiologie gravi. A sottolinearlo è Maria Triassi, componete del team di esperti nominato dal tribunale di Taranto e che ha lavorato per 6 mesi alla perizia medico-epidemiologica sull’Ilva raccogliendo dati, ambientali e di sorveglianza sanitaria (ricoveri ospedalieri e decessi), ricollegabili ai risultati dell’inquinamento registrati dall’Arpa e prodotti dall’acciaieria.

LEGGI ANCHE: La fabbrica della morte - Foto

LAVORI URGENTI- “E’ chiaro che servono lavori di adeguamento dell’Ilva. Questo tipo di impianti siderurgici – spiega all’Adnkronos Salute Maria Triassi, che anche direttrice dipartimento igiene e sicurezza degli ambienti di lavoro dell’università Federico II di Napoli- producono emissioni di inquinanti atmosferici, come Pm10 o diossina, che se negli anni non vengono abbattute da sistemi di controllo possono creare un incremento di gravi patologie nella popolazione. Nel nostro lavoro – precisa la specialista, che non puo’ entrare nei particolari del provvedimento – abbiamo esaminato una coorte restrospettiva di casi di 20 anni”.

CENTINAIA DI MORTI - In 13 anni di osservazione, dal 1998 al 2010, “sono attribuibili alle emissioni industriali 386 decessi totali (30 per anno), ovvero l’1.4% della mortalità totale, la gran parte per cause cardiache”. E’ quanto emerge dagli atti giudiziari che hanno portato al sequestro dell’Ilva di Taranto. Il dato – contenuto nel provvedimento cautelare – è stato riferito dal perito Francesco Forastiere durante la sua audizione nel corso dell’incidente probatorio. Il perito ha spiegato che l’esame ha riguardato una coorte di 321.356 residenti nei Comuni di Taranto, Statte e Massafra.

CASI DI TUMORE - “Sono altresi’ attribuibili – scrive il gip riportando passaggi dell’audizione di Forastiere – 237 casi di tumore maligno con diagnosi da ricovero ospedaliero (18 casi per anno), 247 eventi coronarici con ricorso al ricovero (19 per anno), 937 casi di ricovero ospedaliero per malattie respiratorie (74 per anno), in gran parte nella popolazione di eta’ pediatrica (638 casi totali, 49 per anno)”.

SALUTE COMPROMESSA - “In conclusione – annota il gip Patrizia Todisco – l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”. “I periti hanno più volte ribadito, nel corso dell’esame orale, come – sottolinea il gip – ‘lo stato di salute della popolazione di Taranto sia di indubbia compromissione”‘, e che a causa dell’inquinamento ambientale in atto “la situazione sanitaria di Taranto sia grave, tenuto anche conto del confronto con la popolazione dell’intera regione Puglia”. (ANSA/ADNKRONOS – Photocredits: Getty Images)

Non solo Taranto, ecco tutte le Ilva d’Italia

Lidia Baratta

Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali. In base al rapporto 2011 dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) sull'inquinamento degli stabilimenti industriali in Europa, più di 60 fabbriche italiane compaiono nella lista dei 622 siti più "tossici" del continente. E, a sorpresa, l’Ilva di Taranto del Gruppo Riva non è al primo posto tra le italiane. La maglia nera del sito più inquinante d’Italia (al 18esimo posto della lista Eea) se la aggiudica la centrale Enel termoelettrica a carbone Federico II di Cerano, in provincia di Brindisi.

Lo stabilimento petrolchimico di Porto Marghera (Venezia)
Lo stabilimento petrolchimico di Porto Marghera (Venezia)

Non solo Taranto, anche in altre zone d’Italia ci si ammala per l’inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali. In base al rapporto 2011 dell’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) sull'inquinamento prodotto dagli stabilimenti industriali in Europa, più di 60 fabbriche italiane compaiono nella lista dei 622 siti più "tossici" del continente. E, a sorpresa, l’Ilva di Taranto del Gruppo Riva non è al primo posto tra le italiane. La maglia nera del sito più inquinante d’Italia (al 18esimo posto della lista Eea) se la aggiudica la centrale Enel termoelettrica a carbone Federico II di Cerano, in provincia di Brindisi, la seconda più grande del Paese dopo Civitavecchia.

Qui, al confine con il Salento, dal 2007 il sindaco ha indetto una ordinanza che vieta la coltivazione dei 400 ettari di terreno che circondano la centrale. Da molti anni i contadini chiedono a gran voce cosa abbia avvelenato i loro campi. E forse, anche i loro polmoni. Alla fine hanno presentato un esposto, a partire dal quale la procura di Brindisi ha aperto una inchiesta. Tra i quindici indagati, ci sono dirigenti Enel e imprenditori addetti al trasporto del carbone che alimenta la centrale, accusati di gettito pericoloso di cose, danneggiamento delle colture e insudiciamento delle abitazioni. A contaminare i terreni, le colture, l’acqua e l’atmosfera, secondo la perizia affidata a Claudio Minoia, direttore del laboratorio di misure ambientali e tossicologiche della Fondazione Maugeri di Pavia, sarebbe la polvere del combustibile usato nella centrale. Stessa conclusione a cui è arrivato uno studio della Università del Salento e Arpa Puglia, che individua «la centrale Enel Federico II, con particolare riferimento alla gestione del carbonile» come «fonte potenziale più probabile delle emissioni». Il processo partirà il prossimo 12 dicembre e la provincia di Brindisi ha annunciato che si costituirà parte civile.

Dopo Cerano, bisogna aspettare il 52esimo posto per trovare gli stabilimenti a rischio chiusura dell’Ilva di Taranto, con l’emissione di 5.160.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno, circondati dalle raffinerie e dalle centrali termoelettriche di Eni (all’80esimo posto della lista Eea).

Alla 69esima posizione compaiono le Raffinerie Sarde Saras di Sarroch, in provincia di Cagliari, di proprietà della famiglia Moratti. Si tratta della raffineria più grande d’Italia, con una capacità di produzione di 15 milioni di tonnellate annue di petrolio, ossia il 15% della capacità italiana di raffinazione. Una vera e propria città del petrolio addossata al paese di Sarroch, in cui molte case sono state costruite quasi a ridosso dei serbatoi. Anche qui la procura della Repubblica ha aperto un fascicolo sulla attività della Saras e sulle presunte conseguenze per la salute degli operai e degli abitanti di Sarroch. Nella raffineria nel maggio 2009 tre operai sono morti intossicati dall’azoto nel corso di una operazione di lavaggio di una cisterna, e quattro dirigenti sono stati rinviati a giudizio per non aver garantito agli operai le condizioni di sicurezza necessarie sul posto di lavoro.

Non solo Saras. L'aria della Sardegna risulta altamente inquinata anche a causa della presenza della centrale termoelettrica E.on di Fiume Santo (Sassari), nell’area industriale di Porto Torres, e della centrale “Grazie Deledda” di Portoscuso, nel Sulcis. Rispettivamente all’87esimo e al 186esimo posto della classifica Eea. Il Sulcis, nell’area di Portovesme, è un bacino che accoglie aziende diverse, dalla produzione di alluminio (Alcoa, Eurallumina), bitume e polistirolo, al trattamento dei gas e alla gestione di rifiuti speciali e mercantili. E, ciliegina sulla torta, c'è anche una miniera di carbone (Carbosulcis spa). «Non ci possono essere corsie preferenziali per le bonifiche ambientali: Porto Torres e il Sulcis sono nelle stesse condizioni dell’Ilva di Taranto e devono essere immediatamente avviate», ha dichiarato il deputato Pdl Mauro Pili nei giorni scorsi. «Bisogna ricorrere anche qui alla magistratura, rischiando di far crollare tutto il sistema industriale sardo?», si chiedono in tanti sull’isola.

Secondo il Wwf, nell’area industriale di Porto Torres «sono state scaricate acque reflue industriali in violazione dei limiti fissati dalla legge con conseguente inquinamento del suolo e immissione di sostanze cancerogene e altamente tossiche per l’ambiente e la fauna marini», generando «un gravissimo pericolo per la pubblica incolumità», con «l’incremento della mortalità per tumore polmonare, altre malattie respiratorie non tumorali, malformazioni alla nascita». In particolare, «nei pressi dell’insediamento petrolchimico è stata rinvenuta una lunga serie di contaminanti tra cui sostanze organiche clorurate, mercurio, solventi, diossine e pesticidi». E anche la salute del Sulcis sarebbe malata: secondo un dossier realizzato da TzdE “Energia e Ambiente”, solo nell’area di Portoscuso tra il 1997 e il 2003 siu sarebbe registrata un0incidenza del tumore ai polmoni superiore al 30% rispetto alla media regionale.

Non si salva neanche l’altra isola, la Sicilia, con il polo petrolchimico di Gela, quello siracusano (Augusta-Priolo) e le raffinerie di Milazzo (Messina). Queste aree sono state dichiarate «a elevato rischio ambientale» da uno studio dell’Istituo superiore di sanità, che ha osservato un’alta incidenza di patologie tumorali sia negli uomini che nelle donne. I siciliani che lavorano o abitano attorno a questi stabilimenti industriali, secondo l'Iss, si ammalano soprattutto di «tumore maligno del colon retto, della laringe, della trachea, bronchi e polmoni».

È quello che denuncia anche il sindaco di Civitavecchia Pietro Tidei, che ha minacciato di far chiudere la centrale Enel a carbone di Torrevaldaliga Nord per via dell’inquinamento prodotto dai fumi. «Questa mattina Civitavecchia sembrava la pianura padana e non per colpa della nebbia», ha dichiarato il primo cittadino nel corso della conferenza dei sindaci della Asl Rmf il 31 luglio scorso. «Quella polvere gialla che proviene dalla centrale Enel non possiamo più sopportarla». Ma Enel risponde che «tutti i controlli sulla funzionalità dei sistemi di monitoraggio delle emissioni sono stati effettuati da ditte specializzate, secondo le scadenze previste dall’autorizzazione integrata ambientale e sono state costantemente verificate dagli organi di controllo competenti».

Altra regione in cui sono state individuate numerose aree ad alto rischio ambientale è il Veneto. L’impianto termoelettrico Enel di Fusina è alla posizione 108 delle fabbriche pericolose segnalate dalla Eea, mentre la raffineria di Venezia-Porto Marghera dell’Eni è al posto 403. Senza dimenticare che nell’area industriale c’è un piccolo impianto dell’Ilva con un centinaio di dipendenti che rischiano di stare a casa se gli impianti di Taranto venissero chiusi. Nel 1994 la magistratura avviò un'indagine per il disastro del polo industriale: 157 morti, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi rifiuti tossici. E anche qui ora i politici locali alzano la mano e chiedono che non si pensi solo a Taranto e all’Ilva. La differenza è che a Venezia ci sono stati i «risarcimenti» delle aziende che hanno versato quasi 500 milioni di euro per l'inquinamento prodotto, a Taranto invece per l'Ilva lo Stato stanzia direttamente quasi 360 milioni per bonificare e ridurre l'impatto ambientale dello stabilimento.

Ecco la mappa delle area industriali inquinanti segnalate dalla Agenzia europea per l'ambiente.



Visualizza Le Ilva d'Italia in una mappa di dimensioni maggiori

Fonte: http://www.linkiesta.it














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