In Giappone la situazione è gravissima, anche se presentatori televisivi gustano verdure di Fukushima (e poi si ammalano di leucemia come Otsuka Norikazu) e politici nazionali bevono bicchieroni d'acqua delle centrali (Yasuhiro Sonoda). Crescono i timori per il riso con tracce di cesio 137 e la distribuzione dei prodotti ittici con possibile "contaminazione". Si mina così la base alimentare del Sol Levante. Greenpeace stila la classifica sul "pesce radioattivo".
Solamente con il tempo, forse, l'umanità potrà comprendere appieno quanto l'incidente nucleare di Fukushima, ancora non risolto, possa essere grave. Inutile illudersi, come spesso si fa in tv, che Fukushima sia stato il "secondo incidente nucleare più grave dopo Chernobyl" in quanto, nella scala INES, i due disastri sono a "pari merito" (livello 7) e ancora la crisi dei reattori nucleari giapponesi non si è risolta. E così nella società dei consumi, che impone la "smemoratezza" come stile di vita, anche in Giappone la popolazione tende a mettere la testa "sotto la sabbia" pensando che "facendo finta di niente" il problema, in questo caso le radiazioni, spariscano. La situazione invece nel Sol Levante è molto seria, tanto che le organizzazioni indipendenti come l'AIPRI (Association Internationale pour la Protection contre les Rayons Ionisants) definiscono il tempo che ci separa dall'11 marzo scorso, giorno in cui il terremoto e lo tsunami hanno messo fuori controllo le centrali di Fukushima, "6 mesi di censura suicida". E se la nube radioattiva che si è "diluita" nell'atmosfera ed è entrata, nella sua "fattispecie liquida", nella catena alimentare dell'Oceano Pacifico (http://is.gd/atL8pe), non interessa i cittadini del pianeta, in Giappone comincia invece ad impensierire anche la parte più stoica della popolazione per il fatto che il cibo potrebbe essere "contaminato". Ufficialmente infatti (e si può immaginare che cosa sia stato trovato "non ufficialmente") alcune partite di riso (ad esempio nella regione di Onami, ad una sessantina di chilometri da Fukushima) sono state trovate contaminate da tracce di cesio radioattivo. Il timore per la carne e soprattutto il pesce poi, in Giappone, è generalizzato dato che, come scrive da Kyoto anche Naoko Okada "Il 29 ottobre l'IRSN (Istituto di Radioprotezione e di Sicurezza Nucleare), ente governativo francese, ha rivelato il resoconto sulla quantità delle sostanze radioattive fuoriuscite in mare dalla centrale nucleare di Fukushima e il risultato è impressionante. Dal loro calcolo risulta che fino a metà luglio sono fuoriuscite 27,1 mila terabecquerel del Cesio 137 : circa 20 volte della quantità annunciata dalla TEPCO. Infatti cinque giorni prima di questo annuncio la cooperativa ittica di Fukushima, che dopo l'incidente della centrale ha sospeso tutte le pesche, ha deciso di sospendere la ripresa della pesca programmata per il mese prossimo, visto che dai prodotti marini pescati nella zona continuano a rivelarsi le sostanze radioattive in quantità superiore del limite stabilito dallo stato" ("Le madri di Fukushima contro il nucleare" http://is.gd/mOEBo2). Ma per capire la gravità della contaminazione da Cesio 137 è interessante leggere un post dell'AIPRI intitolato emblematicamente "Il Cesio amaro di Fukushima". Il cesio 137, scrive l'AIPRI "è un genotossico provato e un veleno radioattivo mortale di origine artificiale (...) E' così pericoloso che l'AIEA nelle sue tabelle (...) pubblica che 175 milligrammi polverizzati per Km2 (15 Ci per km2 dunque 555000 Bq/m2) è una calamità senza rimedio che richiede l'immediato trasferimento dei residenti, il definitivo abbandono di tutti i beni materiali, delle terre e delle colture, e l'abbattimento sistematico degli animali domestici e selvaggi che lasciano la zona maledetta. Queste bestie diventano vettori di contaminazione radioattiva in quanto i loro peli, le loro piume e le loro zampe accumulano le polveri altamente dannose per l'uomo" ("Le césium amer de Fukushima" http://is.gd/DoVGhm). L'incubo del "sushi radioattivo", quello che, nell'immaginario collettivo mondiale unisce il riso e il pesce, in Giappone è sempre più presente. Il Cesio "amaro" sta minando la sicurezza alimentare dei due pilastri del Paese (il riso ed il pesce), un po' come se avesse intaccato in Italia il pomodoro e il grano per produrre gli spaghetti, oltre all'onnipresente "fettina". Greenpeace ha lanciato una campagna per scongiurare la distribuzione di "pesce radioattivo" in Giappone, cercando di sensibilizzare innanzitutto il sistema della distribuzione. Come premessa l'organizzazione ambientalista non violenta scrive: "Gli abitanti dell'arcipelago del Giappone storicamente dipendono dal mare per le proteine: oltre l'80% delle proteine animali della dieta nipponica deriva oggi dal mare e anche per questo il Giappone è il maggior mercato ittico del pianeta". Il governo giapponese pone per legge un livello di contaminazione radioattiva ammessa pari a 500 bequerel/kg, limiti che per Greenpeace "non garantiscono appieno" la "sicurezza". Liberarsi dal Cesio 137 non è una cosa facile: "Si tratta di un lascito pluridecennale alle generazioni future - spiega Greenpeace - : il Cesio 137 ha un tempo di dimezzamento di trent'anni e, normalmente, si assume che la contaminazione si 'azzeri' dopo dieci cicli di dimezzamento. Parliamo di tre secoli". Per questo Greenpeace ha lanciato una "classifica" del pesce radioattivo in Giappone utilizzando due strumenti principali: "un laboratorio di analisi e un questionario, inviato ai rivenditori per valutarne le politiche di acquisto, le procedure di sicurezza e il grado di trasparenza ai consumatori. Oltre a ciò Greenpeace ha chiesto alle aziende cosa avevano fatto per costringere il Governo a un miglior monitoraggio del pescato, pubblicando i dati rilevati", si legge in una nota dell'organizzazione ambientalista. Ma le notizia sono sorprendentemente 'confortanti'. "AEON, il maggior rivenditore di pesce del Giappone e, probabilmente, del mondo - scrive Grrenpeace -, già dall'inizio del mese su pressione di Greenpeace ha adottato una politica a 'radiazione zero'. Dimostrando ancora una volta che, se vogliono, le imprese possono lavorare per garantire la sicurezza dei consumatori".
Bruno Porta Ballai
Fonte: http://www.mainfatti.it
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