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Sunday, January 8, 2012

A caccia d'acqua nei pianeti

Leopoldo Benacchio


Il 2011 è stato un anno storico per l'HST, il telescopio spaziale Hubble. Non solo negli ultimi dodici mesi è stata effettuata la milionesima osservazione dell'Universo con i suoi raffinatissimi strumenti ed è stato pubblicato il decimillesimo lavoro scientifico svolto utilizzando i suoi dati. Probabilmente è grazie ad Hubble che i tre astronomi cui si deve la scoperta che l'espansione dell'Universo ha subito un'accelerazione hanno ottenuto il Nobel per la fisica. Del resto un altro Nobel, Riccardo Giacconi, è stato per anni direttore della struttura scientifica che dirige Hubble da terra a Baltimora.

Record numerici, ma anche e soprattutto la riaffermazione di un caso unico nella scienza, quello di uno strumento che doveva "durare" qualche anno e invece da ventuno è in orbita a 560 chilometri da terra. Sempre alle frontiere della scienza grazie ai suoi strumenti, rinnovati tre volte in questi anni con le eroiche missioni (senza possibilità di recupero in caso di problemi) degli astronauti Nasa. Doveva studiare solo le stelle e invece ha rivoltato come un calzino tutti i campi dell'astrofisica, dallo studio dei vicini pianeti del Sistema solare alle prime, lontanissime nel tempo e nello spazio, galassie formatesi dopo il Big Bang. Ha segnato anche un cambiamento radicale nell'attenzione verso questa scienza, da sempre affascinante, da parte del pubblico che, alla fin fine, finanzia la ricerca con le proprie tasse. Il mitico "taxpayer" statunitense è stato ripagato da Hubble con un fiume di immagini, filmati e notizie continue, tutte mozzafiato.

Il milione e passa di osservazioni rappresenta una miniera e un'eredità cui gli astrofisici di tutto il mondo attingono e il numero di pubblicazioni scientifiche è esploso negli ultimi anni, grazie all'uso di questi archivi. L'Europa poi sfrutta telescopio e archivi per una quota ben maggiore, percentualmente, all'apporto dell'Agenzia Spaziale del vecchio continente, Esa. «Abbiamo fatto una cosa semplice – dice Antonella Nota, direttore scientifico di Hubble per la parte europea - le caratteristiche dell'interfaccia di accesso agli archivi le abbiamo lasciate disegnare agli scienziati e non ai tecnici. Così il software fa quello che vogliamo noi e non viceversa, come in molti casi».

Il progresso è continuo: quando Hubble è partito il software per riconoscere in un'immagine i segnali debolissimi dovuti ai pianeti extrasolari non c'era. Oggi, riesaminando le vecchie immagini se ne trovano parecchi. Anche questo è un caso paradigmatico: saper seguire i progressi tecnologici, ma anche i nuovi campi della scienza. Hubble di pianeti extrasolari ne ha trovati in cielo e anche nel suo archivio e oggi sta cercando con tecniche sofisticate, possibili grazie all'ultima generazione dei suoi strumenti, i segni della presenza d'acqua nell'atmosfera di quelli più vicini a noi. Un modello unico che aggiunge ora la dimensione tempo con il suo archivio, dato che si tornano a osservare oggetti celesti già visti venti anni fa per capire il cambiamento, qualcosa di totalmente nuovo dallo spazio. Mutamenti profondi anche nella strategia di osservazione, maturati con l'esperienza e impossibili senza questa lunga vita di HST, che si spera possa avere ancora davanti a sé dai cinque ai dieci anni. Prima si dava poco tempo al maggior numero possibile di proposte di osservazione, un paio di orbite da 90 minuti a ogni gruppo di ricercatori che superavano la durissima selezione. Oggi si è capito che per andare ai limiti dell'universo, dove si vuole arrivare, bisogna selezionare anche dei progetti speciali (ce ne sono quattro) cui dare tanto tempo, mille orbite, 50 giorni all'anno. Una cosa sbalorditiva e impensabile fino a poco tempo fa. «I risultati li vedremo fra dodici mesi e sono sicura saranno entusiasmanti», conclude Antonella Nota.

E pensare che nell'aprile del 1990 la disperazione aveva pervaso la Nasa: una gommina montata all'incontrario nel supporto dell'ottica rendeva quasi cieco il telescopio. Rischiarono la vita in tre quella volta, fra cui l'attuale capo della Nasa Charles Bolden, per andare nello spazio a cambiare una guarnizione. Ne è valsa la pena.

Fonte:www. ilsole24ore. com





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